Poeta e romanziere, quindi anche critico d'arte contemporanea – tra l'altro scopritore di alcuni talenti – Marcello Venturoli (1915–2002) è stato uno dei pochi cronisti d'arte di cui da giovane leggevo gli scritti prima su “Paese Sera” (fino al 1963 quando per contrasti con la direzione – non era abbastanza filocomunista! – “viene licenziato e si ritira nella sua casa di Ostia” dove riprese la “carriera” di scrittore ( già stata brillante, vincendo due volte il Premio Viareggio a distanza di sei anni: 1951, 1957).
Di lui nel 1960 o 61 lessi il Dizionario della paura (1951), sorta di colloquio epistolare, o meglio disputa ideologica tra liberismo e comunismo dibattuta con Ruggero Zangrandi. Fu lettura utile e stimolante per me socialista “utopico”, circondato da coetanei estremisti, poi per lo più estremisti parolai pronti ad ogni prebenda accademica e sociale, mentre altri si rivelarono opportunisti blairiani o comunisti immemori, quindi - se ancora vivi - renziani o democratici atlantici e guerrafondai. Divago ancora per ricordare che Zangrandi (1915-1970) nel 1962 pubblicò per Feltrinelli il bestseller Lungo viaggio attraverso il fascismo: testimonianza sferzante, un atto di accusa che svelava soprattutto l'entrismo (con o senza distacco dal fascismo) avvenuto tra il 1943 e il 1945 (purtroppo con compiacenti assoluzioni: il cicerone di Hitler, ad es., bombardato Direttore generale) delle camicie nere nelle formazioni democratiche, soprattutto nel partito comunista (ciò che 60 anni dopo spiega, almeno in parte, l'attuale maggioranza trisfascista assieme alla flebile opposizione bifascista. Ciò si constata in particolare nella dissoluzione di chi si disse comunista confluito nelle peggiori o nuove formazioni politiche ambigue e cleptocratiche) e, questo lo sostengo io fermamente, felici che i neri facciano i cambiamenti – anche radicali – che loro apprezzano e approvano ma non hanno il coraggio di proporre, persistendo a dirsi opposizione e di “sinistra”. Col cavolo!
Seguii saltuariamente gli scritti di Venturoli dopo la mia parentesi universitaria, con una ripresa d'attenzione che sarà parte collaterale ma determinante di un post che ho intenzione di pubblicare nel prossimo futuro.
L'estratto che segue proviene dal volume Tutti gli uomini dell'arte (Rizzoli, 1968), comprendendo due capitoli del libro, che ripropongo secondo la cronologia reale, diversa dalla sequenza delle pagine del libro, che ho acquistato l'anno scorso. In questi due stralci Marcello Venturoli scrive di Firenze; della Mostra nel Salone dei Dugento di Palazzo Vecchio delle opere donate dagli artisti alla città di Firenze per il costituendo Museo d'Arte contemporanea; della Mostra “Arte Moderna in Italia 1915-1935” di Carlo L. Ragghianti.
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Marcello Venturoli |
Oltre alla sorpresa per il suo interessamento a queste vicende per me importanti, ne ho gradito il taglio equanime e la scrittura scorrevole, “divulgativa” nel senso della “seleArte” ragghiantiana. Naturalmente l'analisi di Venturoli non è “embedded”; anzi la sua lettura critica è per diversi aspetti differenze, anche distante e pungente ma non offensiva, tanto meno denigratoria. Si tratta di punti di vista diversi e intelligenti (e ciò è dialetticamente positivo).
Giunto al termine di questo redazionale mi ricordo di una recensione di Carlo L. Ragghianti al libro La patria di Marmo, pubblicato da Venturoli nel 1957 con il comune editore Nistri-Lischi. Siccome il testo di C.L.R. non è propriamente lusinghiero per l'autore, anche se “mezzo noioso e mezzo divertente”, la persona Venturoli dieci anni dopo non esprime risentimento veruno. Ciò dimostra una personalità molto e positivamente matura, data la notoria suscettibilità rancorosa mediamente diffusa, allora come sempre, tra gli “intellettuali”. Perciò ripropongo come Appendice anche lo scritto di C.L.R. tratto dalla rivista “Criterio” (n.7, luglio 1957).
F.R. (20 aprile 2024)
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