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Allievo
di Lionello Venturi, Enrico Crispolti (1933-2018) è stato uno
specialista d'arte moderna e contemporanea, con particolare dedizione
al Futurismo e alle sue conseguenze. E' stato docente a lungo presso
l'Università di Siena.
Nel
1954, appena maggiorenne, scrive a “seleArte” in relazione alla
libera docenza in Storia dell'Arte contemporanea e ai regolamenti
ministeriali vigenti. Pubblicando la lettera nel fascicolo n. 13
(lug.-ago., p. 3), Carlo L. Ragghianti svolge un'analisi su necessità
e carenze della cultura accademica e degli insegnamenti impartiti nei
confronti dell'interesse generale del Paese.
Di
nuovo, nel 1956, Crispolti invia a C.L.R. un suo intervento su “Nuova
repubblica” (n. 51, 16 dic.), che con il titolo Un grido di
allarme relaziona sulla
difficoltà e gli ostacoli frapposti alla “Commissione parlamentare
per la tutela e la valorizzazione del patrimonio artistico, culturale
e del Paesaggio” e sulle molte e articolate proposte in essa
sostenute da Ragghianti “perché tutte da sottoscrivere”. Segue
un cortese, breve scambio epistolare.
Nel
fascicolo n.75 (lug.-sett. 1965, p.58) di “SeleArte” è stata
pubblicata – direi scritta da Carlo L. Ragghianti – la recensione
della monografia che Crispolti ha dedicato al ciclo “Il Concilio”,
che, con piglio Baconiano, ha impiegato Segio Vacchi tra il 1962 e il
1963. Questa particolare ricerca dell'artista viene definita dal
recensore “oltre che un nodo problematico, di grande rilievo e
forse anche, per molti aspetti, condizionante per una nuova maturità
del pittore”
Dal
giugno 1966, in merito alla mostra Arte Moderna in Italia
1915-1935, nella quale Crispolti dal febbraio fa parte del
Comitato nazionale su designazione di Ragghianti, egli invia una
fitta corrispondenza collaborativa alla Segreteria e a C.L.R.
Dopo
questa esperienza le esigenze accademiche di Crispolti, ancorate a
“cordate” estranee, quando non antitetiche alle convinzioni di
mio padre, divergono vieppiù, sia pur senza prese di posizione
evidenti.
Sempre
un concorso universitario per la cattedra di professore ordinario,
quello in cui era candidato Crispolti, nel 1977 dà adito ad una
corrispondenza tipicamente accademica, dalla quale in data 30 giugno
C.L.R. compiega una copia a Giuseppe Mazzariol “con postilla”.
Non è dato conoscere il carattere di questa nota, di cui pertanto
ignoro il contenuto.
Comunque il comportamento di Crispolti nei confronti di R. è già da tempo freddo perché egli si è allineato alle posizioni di G.C. Argan, ordinario a Roma e capofila di una cordata nazionale di addetti alle arti i cui membri venivano comunemente designati come “arganizzati”. In effetti bisogna riconoscere che questa “massoneria” era piuttosto efficiente e invadente.
Il rapporto tra i due studiosi risulta chiudersi nel 1985 (3 gennaio) quando R. scrive a C. a proposito della “cagnara” sulle false sculture di Modigliani per chiarimenti e informazioni (lettera che riproduco insieme alle pagine su “SeleArte” del 1954). Non mi risulta esserci stata una risposta. In caso contrario deve essere finita in qualche incartamento relativo a quella sporca storia. Non penso, infatti, che Crispolti si sia permesso di essere scortese con Ragghianti. Se non altro perché il suo sopra citato capocordata era implicato nella “beffa”, e in modo piuttosto imbarazzante, e di conseguenza aveva tutto l'interesse di uscire dall'occhio del ciclone mediatico sulla scia di altrui dimostrazioni e giustificazioni.
In definitiva il C. è stato uno degli ordinari professori universitari, ossequiosi per crescere, arroganti per resistere, dimenticati una volta pensionati.
F.R. (3 febbraio 2020)
Dalla
esauriente scheda di Enrico Crispolti si ricava che Giacomo Balla è
stato un ideologo di spicco e un attivista, per così dire, del
Futurismo fino dal 1910. Valutando che la sua pittura è praticata
con differenti modulazioni nel corso del tempo, il critico romano
conclude la sua analisi scrivendo che “dagli inizi degli anni
Trenta Balla ripiega su una figurazione naturalistica sempre più
piatta e descrittiva”.
E'
certo che prima di aderire al Manifesto dei pittori futuristi,
l'artista fu tra i protagonisti
del “divisionismo” con opere schiettamente legate al realismo
sociale ed anche illustrativo. Riuscì ad esprimersi anche con
accenti poetici, come nel ritratto della moglie Elisa (1906).
Dopo
i suoi “capolavori futuristi” degli anni precedenti la guerra
mondiale (che non riproduciamo tra i documenti aggiuntivi perché
notissimi e antecedenti il periodo indagato nella Mostra 1915-1935),
l'operato di Balla è abbastanza coerente, con qualche nostalgia
figurale (Verso la notte,
1920). Al 1930 Crispolti data un disegno (firmato e datato sul foglio
“14”) degno dei papiri goliardici e del peggior Grosz.
Del
1933 è il dipinto (eseguito con la figlia Luce) Colori,
luce, dissonanza e armonia che
sembra più un cartellone pubblicitario che un Dudovich o un
Sacchetti si sarebbero vergognati di firmare, oppure un'illustrazione
per un racconto di rivista femminile dell'epoca.
Carlo
L. Ragghianti, almeno seguendo la Bibliografia degli scritti,
ha pubblicato un unico intervento (v. la p. 10 di “Critica d'Arte”
n. 73, 1965) Balla e la fotodinamica di Bragaglia. In
relazione a quel testo, su invito di Marco Scotini, Daniela Fonti
svolge un'analisi critica (anch'essa qui riportata) che parte dalla
constatazione che “l'approccio ragghiantiano a Balla e il suo
giudizio siano sorprendentemente riduttivi”. Togliendo alla frase
della studiosa l'avverbio, si può ritenere che si tratta di una
affermazione esatta. Per il resto viene rivendicata una qualità
espressiva di Balla che non condivido perché una parentesi di
rivelazione, di intensa espressività e qualità deve essere sì
riconosciuta, però – casomai – indagata chiedendosi come può
accadere che un personaggio “volgare” come Balla riesca ad essere
anche l'ideatore formale di “eccezioni” valide ed espressive.
Dell'attenzione
di Carlo L. Ragghianti per il percorso di Balla ci sono certamente
accenni in altri contesti della ricca bibliografia dello studioso
lucchese, lì dove si è occupato di Futurismo in generale o di altri
artisti aderenti o vicini al
movimento. Ricordo soltanto: Mondrian e l'arte del XX secolo, 1962; Futurismo, un rivoluzionario esibizionista, in “L' Espresso”, 4 febbraio 1962; Forma senza figura e figura senza forma.Sintassi e grammatica della visione, in “La Nazione”, 21 gennaio 1980; Marinettiana, in “Critica d'Arte”, IV, n.13, apr.-giu. 1987. Oltre naturalmente all'importante saggio La prima mostra storica del futurismo. Progetto per la Biennale di Venezia 1960, in “Critica d'Arte”, n. 172-174, lug.-dic.1980, pp. 181-211.
Dall'Archivio
ho rinvenuto la fotocopia della lettera che il 22 settembre 1971 C.L.
Ragghianti inviò a una studiosa francese, di cui purtroppo non sono
riuscito a individuare i dati anagrafici, che gli aveva inviato in
visione un suo scritto su Balla, il quale dovrebbe essere tra gli
estratti conservati nella Fondazione di Lucca.
Siccome
questo significativo documento è scritto in francese, lo
riproduciamo con a fronte la traduzione in italiano.
Ripropongo
anche la scheda del Catalogo/Mostra Arte in Italia 1935-1955
redatta da Antonello Trombadori, con l'ausilio di Valerio
Rivosecchi. Tutto sommato si tratta di considerazioni pilatesche
circa i contenuti dei dipinti spesso degni della volgarità di
Boccasile. Ciò non toglie – questo va riconosciuto – che Balla è
capace anche di un ductus pittorico di rara perizia.
Nell'articolo
de “L'Espresso” intitolato Qui c'è in Balla la
realtà,Maurizio Calvesi ricorda che questo pittore “fu
l'ultimo a disertare negli anni Trenta, ma lo fece con la maggior
violenza, come se troppo a lungo avesse represso la propria
scontentezza. Definì i colleghi in futurismo individui
opportunisti e arrivisti e gridò che l'apertura è
nell'assoluto realismo”. Quindi, anche senza dissentire o
polemizzare con i ragionamenti abbastanza giustificativi dell'autore
dell'articolo, si può comunque asserire che Balla fu traditore,
anche, e denigratore vigliacco.
Per
concludere devo dire che ho tratto l'impressione circa Balla in
particolare e gli altri futuristi – Boccioni escluso; lui era un
artista autentico e di ben altra caratura – che molti studiosi e
critici, specie se militanti – fossero “intimiditi”,
condizionati perché può essere controproducente, sconsigliabile,
rischioso – forse – approcciarsi con riserve o negativamente
ad analisi e giudizi che turbino un mercato enorme, interessi
consolidati, che galleggia su decine di opere quotate in modo
spropositato – spesso del tutto arbitrario – sugli autentici ed
intrinseci valori dell'arte.
F.R. (2 febbraio 2020)
Intellettuale
di estrema destra, purtroppo con capacità scrittorie ed evocative
notevoli, Julis Evola (1898-1974) è stato fin da adolescente pittore
con le caratteristiche che descrive l'estensore della scheda
iniziale.
Penso
sia plausibile ritenere che questa sua vena espressiva vada
considerata una esperienza intellettualistica, intrapresa nella prima
fase fino al termine della Guerra mondiale (1915-1918), nella quale
Evola fu imberbe ufficiale dell'ultima leva, durante la quale per
qualche tempo ebbe per collega Giuseppe Bottai (1895-1959), il futuro
ministro fascista dell'Educazione nazionale. Successivamente
all'iniziale dinamismo futurista si spostò verso il “dadaismo” e
altre forme di moda. Per questo percorso, pur riconoscendogli una
vena abbastanza originale, mi pare che la sua stesura pittorica sia
tutto sommato abbastanza dilettantesca.
Siccome
però nel 1966 la Commissione Esecutiva della Mostra 1915-1935
ritenne Evola degno di far parte dell'Esposizione con una sola opera,
cioè simbolicamente, vale a dire, visto che il suo curriculum è
senz'altro eccezionale rispetto a quello praticamente di tutti gli
altri
artisti presenti in Palazzo
Strozzi, si può concludere che nella sua inclusione si voleva
sottolineare l'aspetto culturale, critico addirittura, da distinguere
dalle altre componenti del suo ingegno speculativo di scrittore e di
ideologo.
Per
questo motivo ritengo che vada ricordato ed esemplificato la
complessità della figura intellettuale di Evola, anche perché i
veleni sono tossici, però conoscendone la natura si possono evitare
o contrastare con efficaci antidoti.
Ho
scelto, quindi, per questo scopo un profilo di Evola scritto dal noto
storico della Massoneria Aldo A. Mola (n. 1943), studioso cauto,
moderato, conservatore – è ancora monarchico! – ma non fazioso o
fuorviante. Il suo testo, che si può leggere qui dopo le
illustrazioni, è stato edito nella “colossale” opera –
concepita e realizzata su impulso di Giovanni Spadolini – Il
Parlamento italiano 1861-1988. Le pagine su Evola sono
estrapolate dal XII volume, 2° tomo, pp. 546, 547 della serie di
ventisette volumi.
F.R.
(25 gennaio 2020)
Nella
scheda di questo pittore torinese non vengono forniti i dati
anagrafici, il che dimostra come spesso i critici e talvolta gli
storici si occupino di persone e di accadimenti con certa
superficialità e approssimazione. Comunque, se non gli vengono
forniti certi dati, la Redazione dovrebbe segnalarlo spiegando anche
perché lei non li abbia rinvenuti. Inoltre nelle biografie oggi
disponibili in Web non sempre viene indicato lo stesso anno di
nascita di Alimandi: quello prevalente è 1906; la morte è indicata
nel 1984.
Altra
discrepanza non da poco si riscontra nella grafia del cognome del
pittore: Alimandi (come in
tutti i dipinti che ho visto) e Allimandi come
in tutti gli scritti delle bibliografie successive alla Mostra del
1967. Anche in questo caso i signori biografi dovrebbero almeno
fornire il motivo perché ciò è avvenuto. Una firma è una scelta
individuale, un atto di volontà; una grafia multipla è segno di
ignoranza – se non indagato il perché – di chi scrive sul
soggetto in esame. Non siamo più nei secoli fino al XVII nei quali
si riscontrano grafie multiple (esempio: Brueghel, Bruegel,
Breugel..); oggi questi casi si verificano soltanto nelle
traslitterazioni da scritture differenti.
D'altra
parte su questo Alimandi c'è poco da dire: la sua pittura è
mediocre e piuttosto lugubre, il ductus esprime,
più che “cupe tonalità riconducibili alla maniera
espressionista”, pesantezza e opacità; talora è volgare negli
“accenni surrealisti”. Si vede che il cosiddetto Secondo
Futurismo e il successivo Surrealismo italiano non avevano di meglio
da mostrare.
F.R.
(26 gennaio 2020)
A
differenza del precedente Alimandi, nel caso di Benedetta Cappa
Marinetti l'assenza di dati anagrafici sulla scheda del Catalogo
dipendono dal malinteso omaggio muliebre di non indicare l'età
esatta delle donne. Quasi sempre ciò è dovuto a vanità femminile,
presuntuosa ed arrogante verso le altre donne specialmente coetanee:
all'anima del femminismo e della sororità! Comunque Benedetta Cappa
è nata nel 1897 ed è morta nel 1977.
Di
Benedetta – anche aeropoetessa
(1939) – come pittrice si può concordare con Crispolti, il quale
scrive fosse di “un cromatismo terso e prezioso di assai notevole
qualità pittorica”.
L'ultima
affermazione, però, non tiene conto di “cadute” stilistiche alla
Balla, cioè di un descrittivismo figurale che banalizza l'impianto
visivo e la qualità di diversi dipinti.
Infine
riproduco anche il Ritratto simultaneo di Benedetta (1938)
dipinto dalla “camicia nera futurista e primo battaglista del
mondo” Mario Menin (1896-1962) perché è un notevole esempio di
culto della personalità, degno della retorica che il fascismo di
fatto condivideva con il bolscevismo staliniano.
F.R.
(26 gennaio 2020
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