Il
27 luglio scrissi ab irato un
post (l'ottavo di argomento giottesco) che, depurato da
considerazioni controproducenti di tipo personale, pubblico a
chiusura del presente intervento il quale comprende anche la
recensione (non fresca ma tuttavia utile data l'importanza della
tavola autografa di Giotto già in San Giorgio alla Costa di
Firenze). Dopo la nota redazionale, a sé stante, verrà riprodotto
il recupero della pagina dispersa di una intervista a Carlo L.
Ragghianti da parte di Enzo Fabiani per “Gente”, 7 maggio 1982.
Questo testo, che verte prevalentemente sull'opera e i tempi di
Giotto, ha un taglio colloquiale e disteso e rappresenta una
testimonianza sulla personalità non paludata dello studioso.
La
Madonna di Giotto, già
mutilata nei contorni, fu lesionata da schegge di vetro e altro la
notte tra il 26 e il 27 maggio 1993 in seguito all' attentato mafioso
di via dei Georgofili a Firenze. Una volta restaurata la tavola, per
iniziativa del Comitato Eventi per Lucca e della Fondazione Cassa di
Risparmio fu esposta alla fine del 2014 nella chiesa di San
Franceschetto. Il ripristino dell'opera del maestro vicchiese fu
operato dall' équipe
di Paola Bracco, la quale firma la relazione tecnica (pp. 36-37) del
Catalogo Giotto in San Francesco edito
in inglese ed in italiano per l'occasione da PubliEd. Non sono in
grado di dare altri dettagli su questa restauratrice perché le
notizie che la riguardano sono accessibili tramite Linkedin, una
sorta di fortezza paranoide alle richieste della quale rifiuto di
sottostare.
Nelle
seguenti pagine bilingui 58-69, Licia Bertani – pensionata della
Soprintendenza di Firenze – scrive La fortuna critica e
la bibliografia conseguente caratterizzata da una osservanza
longhiana praticamente esclusiva.
A
proposito di questa importante opera, mi fa piacere ricordare che in
Percorso di Giotto (“Critica
d'Arte”, n. 100.101, mar.-apr. 1969, p. 68; nostro post del 26
novembre 2017) Carlo L. Ragghianti così cita specificatamente il
dipinto:
Nella
monografia, agile ma rigorosa, che Licia Collobi scrisse nel 1987
(Giotto, p.14,
Università Internazionale dell'Arte, Firenze; nostro blog del 27
luglio 2017) a proposito di questa pala:

Il
pezzo forte, che da solo giustifica l'edizione della pubblicazione
bilingue – ben illustrata per quantità e qualità – è il
racconto Il poeta di
Marco Vichi (autore di cui credo aver letto tutti i libri e di cui
proprio due sere fa ho terminato di leggere con rimpianto il
coinvolgente romanzo L'anno dei misteri).
In questo originale racconto Vichi narra le vicissitudini di Dante
Alighieri, amico e interlocutore di Giotto, in una casuale sosta
romagnola nella quale passa una notte agitata per la frenesia di
terminare il canto di Paolo e Francesca. Nel caso del “recupero” di “Gente” bisogna tenere conto del fatto che titoli e sottotitoli nei giornali quotidiani e nelle pubblicazioni periodiche sono opera del direttore o di un redattore delegato e che di conseguenza essi non sempre individuano il nucleo fondante di un processo intellettuale altrui, in questo caso mi sembra che nei titoli si sia voluto “sdrammatizzare” le figure di Giotto e di Ragghianti portandole su un piano colloquiale. Non si tratta quindi di un testo criticamente rilevante, bensì di un documento interessante circa la notorietà di C.L.R., il quale pur schivando quasi tutte le occasioni “mondane” era tuttavia considerato da molti giornalisti quale personalità civile e storica importante della vita nazionale, nonché uno studioso di chiara fama degno di essere conosciuto dal grande pubblico generico come peraltro ha dimostrato la copiosa massa di “coccodrilli” in occasione della sua morte (vedere i post del 31 dicembre 2017 e del 31 dicembre 2018). L'intervista di Enzo Fabiani (di cui diamo qualche notizia nel post del 18 dicembre 2017) oltre che giornalista, poeta e scrittore di orientamento cattolico ma non reazionario, è sostanzialmente corretta.
Finalmente la possiamo postare integralmente, grazie anche alla collaborazione della Fondazione Ragghianti di Lucca, dopo anni di ricerche delle pagine mancanti. Dopo il recupero, veniamo ai risentimenti retrospettivi. Che mediocri studiosi abbiano il coraggio di scrivere su Giotto e
sulla pittura dei secoli XIII-XIV ignorando deliberatamente gli studi e gli scritti
dei coniugi Ragghianti è riscontrato da decenni. Che in questo o in
altri casi saccheggino attribuzioni, tesi problematiche,
puntualizzazioni critiche e quant'altro attinente la storia dell'arte
senza citare la fonte, come diceva Rascel, “invece pure”. Quindi
che si pratichino damnatio memoriae non
sorprende, caso mai rappresenta un en plein concreto, anche
se raramente accertato.
E'
di conseguenza purtroppo non inusuale negli ambienti della supponenza
accademica che una studiosa dall'illustre doppio cognome incorra in
taluni comportamenti tra quelli appena descritti. Costei nel 1967 fu
benevolmente ospitata da C.L. Ragghianti in “Critica d'Arte” con
un articolo suggerito dal di lei maestro universitario, secondo una
prassi corrente per diversificare le fonti della propria
bibliografia. Quasi trent'anni dopo, divenuta a sua volta “barone”,
nel 1995 ha pubblicato una monografia su Giotto senza nemmeno
ricordare gli studi di C.L.R. e nemmeno in bibliografia il libro
Giotto di Licia Collobi (Università Internazionale dell'Arte
di Firenze 1987; ripubblicato con veste grafica modificata nel nostro
post il 27 luglio 2017), segnalato a suo tempo su “Critica
d'Arte” serie Panini Editore. Il tutto probabilmente – lo posso
ammettere – per sua arrogante ignoranza piuttosto che per malafede.
Quello
che non è usuale e quindi in malafede, invece, è il comportamento
di un soggetto largamente beneficiato (personalmente, editorialmente,
accademicamente) da C.L.R., nonostante non fosse nemmeno un suo
allievo diretto. Questo tipo, alto, grosso, dinoccolato, che gli
usceri dell'ufficio Critica d'Arte/Ragghianti di piazza Vittorio
Veneto a Firenze avevano soprannominato il “Tattamea”, nel 1996
nella rivista “Critica d'Arte” (nel frattempo divenuta bollettino
parrocchiale dell'ormai decadente Università Internazionale
dell'Arte di Firenze) recensì il citato Giotto della docente
universitaria dal doppio cognome paterno. Tra l'altro egli scrive che
l'autrice “offre un testo innovativo ma non svincolato da una
robusta tradizione critica, frequenti sono i richiami ai volumi di
Gnudi, di Previtali, di Volpe, di Bellosi, di Zeri, della Lisner
(praticamente tutti longhiani e tutti in lettere maiuscole) e di
altri ancora, alla quale opportunamente l'autrice si richiama”.
Poffarbacco:
e i Ragghianti? Altri ancora?” nemmeno confutati?; silenzio su
tutta la linea. Peccato che questo il Tattamea di seconda
generazione, nel 1989 abbia recensito in termini lusinghieri il libro
Dipinti fiamminghi in Italia 1420-1570, scritto da Licia Collobi
Ragghianti, defunta poche settimane prima della pubblicazione
dell'opera. Si è trattato di un tardivo moto di sentimentalismo nel
ricordo della signora che tantissime volte l'aveva ospitato al desco
familiare? Purtroppo nemmeno ciò. La recensione così favorevole
anche all'editore (Calderini) era dovuta evidentemente al fatto che –
dopo la morte di Carlo L. Ragghianti (1987) e per la di lui
segnalazione – il Tattamea era stato nominato direttore della
collana, succedendo a R., nella quale era stato pubblicato il corpus
di Licia Collobi.
Concludo
il capitolo con due osservazioni. Il direttore di collana presso un
editore può recensire in una rivista di un altro editore il libro
del primo editore senza essere in conflitto di interessi? Cito Carlo
Antoni su Croce – mi si perdoni l'accostamento al Tattamea – il
quale su “Il Mondo” del 22 novembre 1955 scrisse: “Dicono che
Benedetto Croce si sbagliasse nel giudicare gli uomini, e può darsi
che fosse vero, ché non c'è grand'uomo, se non erro, di cui non si
dica altrettanto”. Ciò vale anche per mio padre, ma non voglio
essere io ad insistere sull'argomento.
Concludo
ricordando una puntura di spillo, intriso di veleno accademico. Il
1997 per me fu un anno particolarmente difficile, trascorso da
pretestualmente disoccupato e costretto dal bisogno all'ozio
professionale oppure a sgradevoli lavori da “negro” (consapevole
– per altro – di averli ricevuti più per umiliarmi che per
aiutarmi economicamente, vincolato per di più da atti notarili
all'impegno della riservatezza, che intendo comunque rispettare). In
aggiunta a tutto questo era in pieno svolgimento una triste,
sciagurata diatriba familiare. Per questi motivi reagii con
particolare acredine alla constatazione che un tizio, tal Toqualcosa,
adepto della solita congrega e pure baldinescante si era segnalato
per scritti sulla pittura del XIII secolo, nei quali ignorava e
sviliva i raggiungimenti di mio padre. Scrissi in conseguenza
un violentissimo e ingiurioso sonetto che ripudio perché disdicevole
nonché inutile. Cito soltanto la terzina conclusiva, che sopravvive
al resto del sonetto che ho distrutto:
violenti.
La Bibliografia – scorretta
di
taciuti studi, plagi e misfatti -
ti
condanna a temere la vendetta.
F.R.
(6 gennaio 2020)
