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4. MARCELLO AZZOLINI (GUERRINI, CHIARINI, VESPIGNANI). 6 ottobre 2019
5/I. FORTUNATO BELLONZI (BOCCHI, D'ANTINO). 12 novembre 2019
5/II. FORTUNATO BELLONZI (MORBIDUCCI, SAETTI). 28 dicembre 2019
Aldo
Bertini (1906-1977)
Per
noi figli Ragghianti è stato lo “zio” Aldo, un personaggio
singolare, mite e categorico, talvolta divertente per la sua
trascuratezza nel vestire. Per me è stato persino il quinto nome
attribuitomi all'anagrafe del Comune di Bologna: Francesco. Alberto
(i nonni), Benedetto (Croce), Cesare (Gnudi), Aldo (Bertini).
Lo
zio Aldo è presente nel nostro “lessico” familiare con numerosi
aneddoti gustosi, dalla “squisita pasticceria”, che faceva con le
sue mani la mamma per le feste natalizie, di cui divorava con
tranquilla ingordigia - conversando col babbo e la mamma – un paio
di vassoi nel giro di mezz'ora (venne apposta a Firenze da Torino un
paio di volte), al mitico “sai Carlo sono dei saggi” (detto con
un sacco di erre – aveva infatti il rotacismo -, la mamma
sosteneva che riusciva a mettere la erre anche pronunziando “la
Vallée d'Aosta”) riferendosi agli omosessuali alla fine di una
lunga diatriba contro il matrimonio, che costoro, allora, non
potevano fare. Era capace di fare gaffes
tremende per involontaria “ferocia”. Per questo motivo, essendo
tutto sommato affermazioni confidenziali che potrebbero ferire la
memoria di qualcuno/a, non riporto quelle che ricordo. Una, forse, la
posso raccontare, se non altro perché si riferisce ad una novantina
di anni fa. Alla fine degli anni Venti – prima dell'obbligo della
tessera fascista – studente universitario eminente, Aldo Bertini
partecipò ad una cena goliardica il cui ospite d'onore era il
Federale fascista di Torino. Alla fine del banchetto, lo zio Aldo
(già noto politicamente per i suoi legami parentali e politici con
Piero Gobetti) andò a sedersi accanto al Federale e con aria
confidenzialmente serafica gli disse.” Lei mi deve scusare, sa, ma
devo proprio dirglielo: lei è uno stronzo!”. Ebbe molta fortuna:
si imbatté nell'unico Federale, forse nell'unico fascista, dotato di
“spirito”. Non fu sanzionato (bastonate comprese), nemmeno
successivamente.
Vorrei avere la penna di Rabelais, o almeno di J. K. Jerome per raccontare l'epico viaggio da Parma a Busseto, con pantagruelica abbuffata presso i celebri Cantarelli di Sanboseto – allora (1961) forse i cuochi più rinomati d'Italia – e ritorno a Parma. Il tutto ospiti di Lallo Quintavalle, che però era in un'altra automobile, ma forse ricorderà l'episodio della dentiera smarrita. C'era col babbo e me, invece, Cesare Molinari, che se è (come gli auguro di tutto cuore) ancora vivo, ricorderà benissimo quelle circostanze di comicità irresistibile. Parenteticamente ricordo anche che per Cesare quello fu un pomeriggio molto fortunato, grazie agli affreschi della cupola del Correggio in Parma.
Vorrei avere la penna di Rabelais, o almeno di J. K. Jerome per raccontare l'epico viaggio da Parma a Busseto, con pantagruelica abbuffata presso i celebri Cantarelli di Sanboseto – allora (1961) forse i cuochi più rinomati d'Italia – e ritorno a Parma. Il tutto ospiti di Lallo Quintavalle, che però era in un'altra automobile, ma forse ricorderà l'episodio della dentiera smarrita. C'era col babbo e me, invece, Cesare Molinari, che se è (come gli auguro di tutto cuore) ancora vivo, ricorderà benissimo quelle circostanze di comicità irresistibile. Parenteticamente ricordo anche che per Cesare quello fu un pomeriggio molto fortunato, grazie agli affreschi della cupola del Correggio in Parma.
Riproduco
invece, perché meno noto ma di notevole importanza il sintetico
profilo di lui che fu pubblicato in Una lotta nel suo corso
(1954), a cura di Licia Collobi Ragghianti e Sandrino Contini
Bonacossi:
Sono
meravigliato (però potrebbe essere ignoranza da parte mia) che
nessuno studioso abbia ancora esplorato la, se non enorme, certo
rilevante corrispondenza tra Bertini e Ragghianti. Forse dipende dal
fatto che buona parte delle missive è manoscritta, quindi assente
nelle carte del mittente. Però l'Archivio della Fondazione
Ragghianti di Lucca (e in minor misura anche il nostro) dovrebbe dare
un quadro esauriente di questa corrispondenza tra i due importanti
storici dell'arte e tra due cittadini impegnati e, soprattutto, il
raro quadro di un rapporto anche confidenziale tra individui tutto
sommato straordinari.
Per quanto riguarda questa Mostra d'Arte Moderna in Italia 1915-1935, dalle poche carte a suo tempo da me salvate dalla dispersione e distruzione dell'Archivio della Strozzina, implicata tramite la persona di Nino Lo Vullo nella realizzazione della Mostra, ho recuperato il seguente documento riguardante Aldo Bertini:
Per quanto riguarda questa Mostra d'Arte Moderna in Italia 1915-1935, dalle poche carte a suo tempo da me salvate dalla dispersione e distruzione dell'Archivio della Strozzina, implicata tramite la persona di Nino Lo Vullo nella realizzazione della Mostra, ho recuperato il seguente documento riguardante Aldo Bertini:
Come
si può notare, la lettera esplicita il singolare stile ed il
carattere dello zio Aldo: un tono sostenuto, cioè, con qualche punta
polemica, però conciliante nella sostanza. Due note: la segnalazione
di Angelo Dragone dimostra la magnanimità di Bertini, pronto a
rinunciare ad un incarico a favore di altri. (Non a caso Dragone,
vent'anni dopo, fu tra i membri della Commissione che realizzò il
Catalogo/Mostra “Arte in Italia 1935-1955). Seconda nota: riguarda
l'appunto manoscritto (Raffaele Monti) a piè di pagina. Si configura
un piccolo mistero: le schede pubblicate nel Catalogo furono 3,
quelle inviate da Bertini 4. Quest'ultima, eccedente dovrebbe essere
stata poi o revisionata e pubblicata come “Red.” oppure assegnata
alla Bovero, a Cremona, a qualche altro Commissario o, addirittura,
l'artista implicato è stato depennato dalla Mostra. Concludo ricordando che Aldo Bertini è stato un eccellente professore (prima dell'Accademia Albertina di
Torino, poi della Facoltà di Lettere
dell'Università di Torino, dove egli ha impostato una scuola valida,
tuttora attiva tramite l'insegnamento di Gianni Carlo Sciolla.
Tornando
a note familiari e concludendo, rammento ancora come fosse oggi il
rammarico, lo sconforto dei coniugi Ragghianti di non essere stati in
grado di presenziare alle esequie dell'amico carissimo per seri
motivi di salute di Carlo. Devo anche, ancora una volta, deplorare il
mio comportamento, perché declinai l'opportunità di rappresentare
la famiglia Ragghianti al funerale di Bertini, privilegiando una
giornata di incontri fiorentini (già stabilita) d'ambito editoriale
– agevolata da una mia amica, trasferitasi da qualche anno a
Firenze e bene introdotta – tesi a trovare un'alternativa
occupazionale decente e quella dell'asfittica e deprimente Vallecchi,
dove ho sprecato dieci anni di vita.
F.R.
(23 settembre 2019)
La
scheda di questa rivisitazione dell'opera di Italo Cremona
(1905-1979) forse ha uno sviluppo eccessivo in relazione ad altri
artisti della sua caratura. Ciò avviene per due motivi: il primo
riguarda l'uomo che è stato veramente poliedrico per il numero di
attività che ha svolto con impegno e merito. Un suo aspetto
importante – a cui teneva molto – quello di letterato e studioso
- lo debbo sacrificare ricordando soltanto la sua prolifica
collaborazione con Mino Maccari (anche lui “proteiforme”, fu
persino redattore capo de “La Stampa” di Torino, Malaparte
direttore) nel “Selvaggio”, negli almanacchi de “L'Antipatico”;
quindi l'ottimo e corposo volume Il tempo dell' Art Nouveau
(1964), per la Vallecchi, le
collaborazioni per “La cultura artistica” (rivista ideata da
C.L. Ragghianti ma non pubblicata a causa dell'incombente ripresa
della “Critica d'Arte”) in parte dirottate su “Paragone” dei
coniugi Longhi-Banti, fino ai testi, allora ancora inediti,
pubblicati su ”seleArte” (IV serie, n. 3 e 4, 1991; vedere nel
nostro blog i post del 5 e 19 novembre 2016).
Cremona
fu anche un celebre “battutista”, ironico, surreale, di conciso
humour, maestro del
gioco di parole, coprotagonista dell'omologo Maccari e degno di
reggere il confronto con il “mitologico” Mazzacurati. Altra
intensa attività di Cremona fu quella di cineasta a Torino (capitale
del cinema italiano fino a Cinecittà) e a Roma in tutte le varianti
creative della “settima arte”, critico e teorico compreso (si
veda il post del 28 ottobre 2018). Così a teatro fu sceneggiatore e
costumista. Operò fotomontaggi satirici e – penso – fu
l'ispiratore dell'adesione fattiva a questa forma di poesia visiva da
parte di C.L. Ragghianti, giacché tutti quelli realizzati da mio
padre che ho visto sono posteriori a quelli che egli vide o gli spedì
Cremona.
Il
pittore torinese fu anche disordinato ma costante nelle amicizie
numerose e coltivate intensamente, nonché decisamente “birichino”
nell'ostentato penchant
femminile, pur restando legatissimo alla moglie Danila Dellacasa,
pittrice invece piuttosto riservata sul proprio lavoro. Circa la
pittura, il disegno, la grafica seriale Cremona fu molto attivo nella
prima, elaborando una sorta di “surrealismo” originale in sé e
nel panorama della pittura italiana. Però, benché in ottimi
rapporti di amicizia personale e con amici anche fraterni di amici
reciproci, Carlo L. Ragghianti non mi risulta abbia scritto alcunché
su Cremona. Mi permetto di presumere che la “ripugnanza”
conseguente alla visione delle opere in cui è inevitabile un tasso
di volgarità espressiva surrealista sia il motivo di questa
trascuratezza critica e che la consapevolezza di ciò abbia inibito
Cremona dal chiedere una testimonianza qualsivoglia al critico
d'arte.
Ad
ogni modo la loro consuetudine amicale si sviluppò negli anni
immediatamente successivi alla guerra quando Cremona gravitò su
Firenze anche con permanenze prolungate; si saldò anche per il
reciproco sostegno in lecite operazioni di connaisseurship,
dato lo stato di sicura indigenza di Ragghianti e quello di Cremona,
meno cogente. Comunque l'artista torinese non doveva essere persona
gradita a mia madre perché questo pittore è stato uno dei pochi
amici del babbo a non aver mai messo piede in casa nostra. Per
quel che mi riguarda ho visto e salutato varie volte Cremona –
sicuro, elegante, snob – in Palazzo Strozzi (allora per me una
specie di seconda casa pomeridiana) ma non ero in grado di afferrare
le sue freddure né i discorsi “complicati” che – in attesa di
incontrare il babbo – scambiava con Righi (di cui anni dopo a
Torino divenne assiduo frequentatore), Parronchi, Federici ed altri
variamente presenti.
In
definitiva, Italo Cremona è stato un punto di riferimento di
derivazione “surrealista” certamente in Piemonte (Abacuc,
Alessandri) e in Italia, declinata però con un modus
operandi attento alla poetica
degli artisti del cosiddetto gruppo dei “sei di Torino”: Jessie
Boswell, Gigi Chessa, Nicola Galante, Carlo Levi, Francesco Menzio,
Enrico Paulucci delle Roncole, tutti presenti in questa storica
Mostra del 1967.
Mi
è grato concludere l'excursus su
Cremona ricordando un testo affettuoso di Mino Maccari del 1968 (in
Mostra Galleria “Dantesca”, a Torino) ed anche la presentazione
che gli fece nel 1980 il suo grande e giovane amico Giovanni Arpino –
eccellente scrittore che ebbi modo di conoscere per motivi
professionali circa un progetto editoriale poi non realizzato – il
quale scrisse:
Devo
ammettere con rammarico che lo “zio” Aldo Bertini quando compilò
le tre schede per il Catalogo della Mostra 1915-1935 si trovava
sofferente di una crisi di depressione malinconica; oppure
sopraffatto da abulia (e questo è poco giustificabile); oppure
addirittura soverchiato da impegni da esplicare (il che non è
giustificabile). Difatti lo scritto su Maugham Casorati è tirato
via, insufficiente. Peccato perché questa signora dall'aspetto e,
per quel che se ne può dedurre, da comportamenti tipicamente
britannici, è una pittrice di autentica vaglia. Si può addirittura
pensare che l'essere divenuta moglie di Felice Casorati l'abbia
condizionata in una sorta di understatement persino
nel suo lavoro. Artista di formazione e di esperienze internazionali,
quale allieva volontaria ma già esperta, formata, più che aderire
al linguaggio del marito ne accolse quel tanto da adattare alla
propria personalità così da essere connotata pittrice comunque
autonoma, originale.
Inoltre
è stata sottostimata dal pubblico (all'inizio almeno) e dalla
critica. Ho notato, tanto per fare un esempio, che nel Museo Civico
di Torino/Galleria d'arte moderna (ed. 1968) Felice Casorati è
presente con 14 dipinti, la Maugham con 2, uno dei quali da lei
donato nel 1960. Il loro figlio Francesco Pavarolo Casorati (n. 1934)
è presente con 1 dipinto, donato da collezionista privato. Inoltre
tra le 200 opere acquisite nel Museo suddetto dalla Fondazione Guido
ed Ettore De Fornaris ed esposte nel 1986/87, Felice Casorati è
presente con disegni ed opere grafiche da p. 111 a p. 129 del
Catalogo, cioè centinaia di disegni e schizzi, nonché opere
grafiche, la moglie Daphne ne è assente.
Come
detto in precedenza l'autore della scheda della Mostra se la cava
con un commento stringato, certo centrato, però sbrigativo. Nel
Catalogo/Mostra 1935-1955 (1992) addirittura i qualificati critici
non ritennero – sbagliando – di inserire nell'ampia panoramica la
Daphne Maugham. Cercando poi qualche illustrazione a colori della
pittrice di Pavarolo, residenza eletta, noto che il mercato è oggi
più attento della critica nei confronti di questa artista che
varrebbe la pena – penso – di essere indagata di nuovo
riconsiderando criticamente, dopo quasi un secolo, le tappe formative
e i relativi documenti visivi e quindi tutto un lungo percorso di
lavoro assiduo, convinto,stilisticamente elevato. La cautela e la
latitanza della critica si può anche spiegare con parole
dell'attento e attivissimo cronista Raffaele De Grada, il quale della
Maugham scrisse: “...svolge un'assidua partecipazione...alle
vicende dell'arte italiana, con una presenza che la critica ha sempre
riconosciuto anche se il carattere schivo dell'artista non ha mai
forzato i tempi”.
Per
documentarmi e fare il punto – se possibile – della
considerazione della Maugham nel nostro panorama artistico ho cercato
il Catalogo della Mostra Antologica del 2004, che al momento risulta
esaurito o non disponibile (per un certo verso, sono dati positivi).
Di conseguenza ho avuto un momento di costernazione circa la
possibilità di reperimento di illustrazioni per questo post, dato
che quelle ricavabili da vecchie fonti sono in b/n e pessime,
comunque rare da reperire.
Poi
vedo che qualcosa, in vero, è avvenuto come, ad es., l'elegante e
accurata monografia Daphne Maugham Casorati, a cura di Leo
Lecci e Daniela Laurian, edita da De Ferrari nel 2009, in occasione
di una Mostra ad Imperia. Avendo acquistato il catalogo nel web posso
dire che oltre le riproduzioni eccellenti delle opere (di cui molte
qui riprodotte), i due saggi sono bene impostati, pertinenti e,
insieme agli apparati, esaurienti. Questo libro può divenire una
rampa di lancio per impostare future ricerche.
In un ritaglio del 2004 da “Venerdì”, leggo che il matrimonio della Maugham con Casorati non fu propriamente felice. Un dubbio al riguardo lo aveva avanzato anche mia madre nei primi anni Cinquanta notando che Casorati non portava con sé la moglie a La Spezia nei giorni di riunione della Giuria del Premio, molto distensivi e divertenti. Però lei stessa aggiunse che ciò probabilmente avveniva perché Daphne M.C. era anche lei pittrice, quindi, “conflitto di interessi”. Un comportamento oggi frequente con alterigia disatteso irridendo coloro che ne condividono e ne rispettano la funzione moralizzatrice dei costumi sociali.
Nella monografia del 2009 leggo
al riguardo che Casorati sulla consorte ha scritto alcune righe
affettuose e riconoscenti che dimostrano l'esistenza di un autentico
matrimonio:
Il figlio Francesco, pittore e docente all'Accademia Albertina di Torino, ricorda che Felice Casorati:
Ritornerò
sull'argomento del Premio del Golfo di La Spezia soprattutto perché
quelle circostanze furono per i Ragghianti “vacanze” più che
gradevoli, al contempo importanti data la conoscenza informale ed
approfondita con grandi personalità artistiche quali Carrà,
Maccari, Casorati, Ciardo, solo per citare quelli che mi vengono in
mente.
F.R.
(8 novembre 2019)
P.S.
Controllando il montaggio del post soprastante in “Anteprima” per
poi poterlo immettere in rete, mi accorgo di aver scordato una
illustrazione di pessima qualità tecnica ma di notevole qualità
compositiva. La aggiungo, perciò, alla fine della panoramica delle
opere di Daphne Maugham Casorati. Il dipinto si intitola: Giuseppina
e nel 1940 è stato esposto alla Biennale di Venezia. Anche In
giardino donato dall'A. Al Museo d'Arte Contemporanea di Firenze
(adesso Museo del Novecento) per distrazione non è stato inserito
nell'impaginato già realizzato.
Enrico
Paulucci delle Roncole (1901-1999), analogamente a Gabriele Mucchi,
ha traversato con piglio deciso e sereno l'intero Novecento, secolo
nel quale è stato uno dei protagonisti della pittura e
dell'incisione. Quando nel 1955 vidi sue opere esposte a La Strozzina
(Firenze, Palazzo Strozzi) per la prima volta, devo confessare che mi
colpì più che altro il suo essere stato portiere titolare della
Juventus nel Campionato di Calcio 1920-1921. Il fatto che fosse
anche un nobile sabaudo – marchese – invece non mi fece
impressione, vuoi per l'ascendenza nobiliare di mia madre, vuoi
perché conoscenti ed amici di famiglia toscani titolati abbondavano
– senza scordare personaggi come il conte Sforza, ad es. - vuoi
infine per avere già nell'adolescenza riscontrato che l'ereditarietà
di titoli e beni era totalmente insignificante per considerare una
persona, anche e specialmente dal punto di vista etico, culturale,
professionale. Il fatto poi che Paulucci fosse intimo amico, sodale
di “zio” Aldo Bertini e benvoluto dal mio babbo, mi garantì sul
fatto che fosse pittore valido, un maestro (da ragazzi la scala dei
valori non è ancora consolidata dal prevalente ancoraggio alla
propria costruzione morale e culturale).
Nel
1986 quando Paulucci consentì la pubblicazione del Diario di
suo padre Paolo (1850-1940) aiutante di campo del re Umberto I,
acquistai e lessi il libro (Alla corte
di re Umberto. Diario segreto.
Rusconi editore) per curiosità prima, poi con interesse e attenzione
non appena mi resi conto di ciò che quel libro rappresentava. Da
quelle pagine, infatti, si deduceva un ottimo esempio e una fonte
(anche se non della entità del Diario
di Domenico Farini, un membro della corte umbertina, analizzato da
Adolfo Omodeo alle pp. 421-426 del libro Il senso della
storia, 1955) per inserirsi in
quel tempo nella fattispecie e – di conseguenza – di disporre,
assieme agli strumenti critici ordinari, di una chiave valida per
storicizzare meglio il periodo di riferimento. Infatti per capire la
storia, per immedesimarsi bene in una epoca o in un accadimento, non
sono sufficienti la conoscenza dei dati e delle date, della
geografia, ecc. ecc. Bisogna penetrare, convivere con la specificità
di costumi, arti, stato delle conoscenze culturali, sociali, tecniche
se necessario e via elencando. Solo così si può iniziare un
precedente storico di qualsiasi tipo. In soldoni: la storicizzazione
consiste nel convivere con questi accertamenti, spesso disparati però
essenziali per potersi fare una convinzione attendibile. Perciò si
può rivivere il passato quale è stato – sia pure con una certa
approssimazione – nell'esperienza di chi ci è vissuto. Quindi se
ne può tramitare al nostro presente e al futuro una ricostruzione
probabile, valida per la comprensione da parte di altri esseri umani.
In conclusione questo tipo di libri è lettura indispensabile
conoscenza da parte dello storico, al pari dei manuali, delle
ricostruzioni “antiquarie”, cinema compreso (se sceneggiato
secondo criteri storici filologici). La contemporaneità della
storia (Benedetto Croce) si realizza particolarmente anche procedendo
in questo modo.
Prima
della guerra, non conoscendo ancora di persona il pittore, Carlo L.
Ragghianti così lo tratteggia in tre righe su “Leonardo” (n.3,
1936, p.77) nell'articolo Indicazioni sulla pittura
italiana contemporanea:
“Paulucci che si è intriso dell'esperienza del miglior filone
impressionistico ed è giunto a una fresca personalizzazione
pittorica”.
Successivamente
nel 1938 su “Critica d'Arte” (n. 4-6, f. XVI-XVIII, pp. 33-37)
recensendo la nota mostra a New York della collezione “La Cometa”,
Ragghianti così si esprime: “ Del Paulucci, talora un po'
epidermico e facile, ma sempre madido, cantato, ventilato, sempre di
un contegno urbano e socievole, di piglio aperto e vivo, sorretto da
un gusto di cui si avverte la finezza di selezione, era esposta una
Baia ligure”. Poi
Enrico Paulucci divenne amico di Carlo L. Ragghianti nel 1952 (come
si deduce dalla lettera del 1° gennaio qui riprodotta) quando si
tenne a La Strozzina la prima esposizione dell'artista (una
“Vetrina”). Però si conoscevano almeno dal 1947 quando il
pittore partecipò al catalogo edito da C.A.D.M.A. (Commissione
Assistenza Distribuzione Materiali Artigianato, presieduta da C.L.
Ragghianti) per una mostra da tenersi nei Grandi Magazzini Macy (una
sorta di enorme Rinascente) a New York e altre località degli Stati
Uniti d'America. Tennero un'esposizione – ancora a La Strozzina –
e così poi nel 1963 Paulucci vi espose (presentato da Italo
Calvino) una personale. Poi Paulucci nel 1950-51 fu invitato a
partecipare alla importante mostra di arte italiana in Germania
(anch'essa itinerante), promossa dal Comune di Firenze e realizzata
da C.L.R. con il suo Studio Italiano di Storia dell' Arte.
Quindi nel 1955 l'artista e i suoi allievi dell'Accademia di Torino Balla, Lanza, Mosso, Perino tennero un'esposizione – ancora a La Strozzina – e così poi nel 1963 Paulucci vi espose (presentato da Italo Calvino) una personale cui le vetrine di Spinosa e Pone fecero da contorno. Carlo L. Ragghianti pubblicò su “seleArte” varie volte opere di Paulucci.
La
lettera di Paulucci datata 15 settembre 1952 sottolinea l'entusiasmo
suscitato dal primo fascicolo di “seleArte” in lui. Questo
sentimento caloroso fu espresso e manifestato anche da tantissimi
altri artisti noti e meno noti.
Ragghianti
volle anche Paulucci presente con un'incisione nelle due raccolte
“storiche” che concepì e realizzò coi torchi de “Il Bisonte”
di Maria Luigia Guaita: “Galleria grafica contemporanea”, 50
incisioni originali, pro Associazione Nazionale Assistenza agli
Spastici, Firenze 1964 e “Cinquanta incisioni originali di Maestri
Italiani” pro Università Internazionale dell'Arte, Firenze 1977.
Con queste presenze, R: intese dimostrare la sua considerazione e
l'apprezzamento per l'indubbio –
ma meno noto – talento incisori o di questo artista.
E'
però nella gouache
(guazzo; tempera) che Enrico Paulucci esprime la propria predilezione
per i paesaggi nautici con continuativi risultati di felice
espressività e di coerenti, originali soluzioni figurali, creando un
“ciclo” evocativo dalle declinazioni morandiane. Aldo Bertini
(1966) così si espresse in un testo dedicato appunto ai guazzi:
Come
molti artisti della sua generazione Paulucci si esprime anche in
altre attività collaterali alla vocazione principale, non esclusa la
critica (nel 1929, ad es., scrisse su Casorati architetto; mentre
invece Edoardo Persico si occupò di Paulucci arredatore).
Infine
mi sembra opportuno concludere la panoramica su questo artista con
tre altri giudizi, scelti non soltanto perché espressi da cari
amici, ma perché molto calzanti e le loro considerazioni ed
osservazioni risultano testimonianze pertinenti e sincere.
Nell'ordine si tratta di “zio” Aldo Bertini, Pier Carlo Santini
(lo conobbi nel 1947, mi aiutò nella scelta della prima bicicletta
da uomo nel 1953, fu amico ed anche fratello maggiore fino alla sua
prematura morte nel 1993), Alfonso Gatto (col quale nonostante le
enormi differenze di carattere ebbi una consuetudine amicale dal 1967
fino alla tragica morte per banale incidente d'auto – 1976 – che
privò l'Italia del suo “poeta civile”, come lo interpellava
Carlo L. Ragghianti).
F.R.
(18 ottobre 2019)
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