Carlo e Licia

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mercoledì 30 ottobre 2019
domenica 27 ottobre 2019
E.A. Poe & J. Verne.
Esattamente
settanta anni fa, ricordo ancora i colori e i calori del tardo
pomeriggio dovuto all'ora legale – che avevo sentito nominare ma di
cui non avevo capito il meccanismo – mio padre, di ritorno da uno
dei suoi numerosi viaggi, mi regalò un libretto tascabile con
vistosa copertina disegnata con colori vivaci. Era uno di quei libri
che avevo visto esposti nelle edicole semoventi della stazione, ed
era intitolato Lo scarabeo d'oro e altri racconti di E.A. Poe
(1809-1849) di cui ignoravo l'esistenza e di cui da quella
introduzione poco più tardi lessi assiduamente l'opera omnia. Il
fatto del regalo non era insolito, anche se non frequente, però
normalmente si trattava di Salgàri
o di qualche derivato dei Tre
moschettieri.
Oltretutto nel 1949, essendo lo Studio Italiano di Storia dell'Arte
di C.L. Ragghianti in Palazzo Strozzi, le mie letture (salvo i
fumetti) erano fornite dal coinquilino Gabinetto Vieusseux-Biblioteca
circolante, nel quale il direttore Alessandro Bonsanti ogni tanto mi
consigliava personalmente un libro, testato, (penso) su suo figlio
mio coetaneo.
Lessi
subito il racconto di Poe ma con qualche difficoltà, che superai tre
anni dopo in una lettura entusiasmante.
Questo
lontano ricordo mi è stato suscitato dal ritrovamento del prezioso e
poco noto saggio di Jules Verne (del quale ho riletto l'Isola
misteriosa
almeno una decina di volte) che rendiconta i lettori della rivista
“Musée des Familles” (aprile 1864) dell'opera dello scrittore
statunitense, morto prematuramente e già assai noto e considerato
anche (e forse
soprattutto) in Francia. Il testo di Verne è illustrato con meravigliose incisioni, xilografie cioè opere grafiche diffuse e pregiate uccise di lì a poco dalla banalità della riproduzione fotografica, realistica ma quasi sempre non suggestiva.
Siccome in tempi diversi, che non ricordo, appurai che sia l'infanzia di mia madre Licia che quella del babbo Carlo erano state allietate dalla lettura delle opere dello scrittore di Baltimora, ritengo adesso appropriato riprodurre il testo di Verne accompagnandolo, a mo' di presentazione, con due pagine di Charles Baudelaire. Allego anche alcune poesie di Poe tradotte in italiano (la mamma le aveva, ovviamente, lette ma ignoro in quale lingua, propenderei per l'inglese).
Intendo anche riferire una curiosa coincidenza riguardante proprio lo Scarabeo d'oro. Ieri pomeriggio ho iniziato a leggere il libro Per ridere aggiungere l'acqua. Piccolo saggio sull'umorismo e il linguaggio di Marco Malvaldi, un impegno letterario difforme da quello suo abituale, trascinante, costruito con originalità e una freschezza che ancora dopo molti volumi
riesce ad evitare la ripetitività. Per Rosetta e per me Malvaldi è ormai una simpatica
presenza, una compagnia distensiva, comunque una lettura che lo fa
andare a braccetto con Jerome K. Jerome e Woodhouse. Data poi la sua
rigorosa formazione di chimico nella stessa Università di Carlo L.
Ragghianti – curioso studioso di atipicità e dei linguaggi non
convenzionali – penso sia un peccato che il divario generazionale
non li abbia fatti incontrare.
Comunque
a p. 28 Malvaldi ricorda che “in ciascuna lingua ogni singola
lettera compare con una determinata frequenza, e tale conoscenza ha
ispirato ben più di un romanziere”; quindi cita proprio Edgar
Allan Poe, Jules Verne, Conan Doyle e il recente Georges Perec.
Avendo,
infine, rinvenuto in Archivio un ritaglio a stampa che riporta
giudizi di Poe su Machiavelli, Manzoni, D'Azeglio, Alfieri, lo
riproduco a dimostrazione di quanto possono essere fuorvianti nel
giudizio qualitativo le traduzioni dei testi letterari. In questo
caso è evidente che a Poe sfugge del tutto l'importanza innovatrice
linguistica di Manzoni, il cui italiano incide sulla contemporaneità
e poi la rivoluzionerà praticamente come fece Dante a suo tempo.
Massimo D'Azeglio, genero di Manzoni, al confronto ha un linguaggio
faticoso, “arcaico”, e – letto in italiano – in un confronto
viene letteralmente sbaragliato dalla limpidezza della prosa del
padre di sua moglie. Così per certi versi l'Alfieri risulta di
lettura faticosa, talora contorta.
F.R.
(19 luglio 2019)
giovedì 24 ottobre 2019
Alois Riegl: Arte tardoromana, 2.
Architettura.
Post precedenti
1. 24 settembre 2019 - Indice generale; Elenco illustrazioni (p. XI); Notizia Critica (p. XVII); L'opera storica di Alois Riegl (p. XXXI).
lunedì 21 ottobre 2019
Biografia di Emanuele Pellegrini su Carlo L. Ragghianti. Prima notizia.
Grazie
all'invio da parte del sollecito Ufficio Stampa della Fondazione
Ragghianti di Lucca, abbiamo ricevuto la recensione di Roberto
Balzani, spontaneamente lusinghiera, alla biografia che Emanuele
Pellegrini ha pubblicato l'anno scorso su nostro padre, storico
dell'arte e uomo politico.
Naturalmente
la riproduco qui insieme alla copertina e alla quarta di coperta del
libro di Pellegrini, di taglio “agile” ma concretamente
improntato ad un rigoroso criterio storiografico.
Con
Emanuele Pellegrini, certamente il più preparato ed informato
studioso della complessa figura storica di Carlo L. Ragghianti, debbo
subito confessare che mi sento in grave difetto, in colpa per il
ritardo con cui riferisco dell'esistenza di questa importante
pubblicazione. Ciò dipende da un mio fatto caratteriale la cui
conseguenza è che non ho ancora trovato il bandolo per scrivere
tutto il bene che penso del libro nei termini canonici di una
recensione.
Ripeto,
mi cospargo il capo di cenere (anche se sui miei capelli bianchi si
vedrà poco) su questo indugio che un mio soprannome indica
chiaramente: Diesel, cioè lento a carburare, lento a mettere a fuoco
e risolvere una incombenza, doverosa nella fattispecie. Infatti se
non riesco a farlo di getto, dovrò poi attendere l'ispirazione per
un tempo stocastico, indeterminabile preventivamente. (Questo è il
motivo, ad es., per cui non ho potuto fare il giornalista, ma
limitarmi a rimanere pubblicista. E' anche la ragione principale del
fatto che in questo blog “saltapicchio” come un grillo da un
argomento all'altro). Spero comunque di riuscire ad intervenire
tempestivamente.
Voglio,
infine, ricordare che la selezione del carteggio Ragghianti nel
libro, eccellente e centrata – come rilevò anche il recensore del
“Sole 24ore” – è opera di Elisa Bassetto, che ha collaborato
alla sistemazione dell'Archivio della Fondazione Ragghianti.
F.R.
(12 ottobre 2019)
venerdì 18 ottobre 2019
Ma Alois Riegl era ben noto.
Questo
articolo, pubblicato su “La Nazione” di Firenze il 6 luglio 1985,
fu concepito da Carlo L. Ragghianti mentre stava concludendo
La Critica della forma. Ragione e storia di una scienza nuova
(Baglioni&Berner, Firenze
1986), opera capitale nella quale era dedicato ad Alois Riegl ampio
spazio con considerazioni e indagini innovative.
Su
questo specifico argomento, assieme a puntualizzazioni circa la
valenza lessicale e metodologica del termine forma abbiamo
dedicato vari post in questo blog, e precisamente: Forma e
funzione (23 aprile 2018); Forma
e figura (31 marzo 2018); Ancora
forma e figura (2 agosto 2018);
Tutto è forma (9
ottobre 2018). Mentre a proposito del libro La critica
della forma su “seleArte”,
IV serie (interamente riproposta in questo blog con indici
attivabili nella pagina successiva alla fotografia di copertina del
blog), ricordiamo l'intervista
a S. Ordasi (n. 2, pp. 5-9) e l'utilizzo dell'indice per Argomento.
Le
indagini sulla “critica della forma” saranno ancora approfondite
con post relativi soprattutto alle ripercussioni del libro tramite
recensioni e chiarimenti desunti dalla corrispondenza di Carlo L.
Ragghianti.
Nel
presente articolo, è poi evidenziata la situazione culturale di Pisa
(intesa come Scuola Normale Superiore e Università) nei primi anni
Trenta, in una congiuntura eccezionale dalla quale non si può
estraniare la figura di Giovanni Gentile. Si analizza anche la
storiografia artistica e culturale internazionale fortemente
debitrice nei confronti dell'opera di Alois Riegl; opera che continua
ad essere diffusa negli U.S.A. Ed è proprio da laggiù che Franz
Boas, grande studioso delle arti primitive
indoamericane, adotta la metodologia di Riegl.
Di
Boas il 15 ottobre 2019 in un post abbiamo riproposto la riduzione
della prima parte di Primitive Art,
mentre nel mese successivo sarà postato il resto della sua originale
ricerca.
Con
queste auspici parole di C.L.R. “Comunque l'estensione della
conoscenza del Riegl è un
fatto positivo a conferma della nostra anticipazione” concludo
questo breve excursus
su un fenomeno culturale che coinvolge da un lato la comprensione
dell'arte primitiva, dall'altro la metodologia derivante dal
ragionare secondo “la critica della forma”.
F.R.
(15 agosto 2019)
martedì 15 ottobre 2019
Franz Boas (1): l'elemento formale nell'arte primitiva.
Carlo L. Ragghianti nel testo
che riproduciamo come Introduzione a
questo post, cioè la prima parte del capitolo Due
precedenti: Boas e Riegl (da:
L'uomo cosciente,
1981, pp. 228-231), rileva che “ esamino in questo autore di
preferenza perché lo considero uno degli studiosi che hanno meglio e
più largamente chiarito i problemi dell'umanità primèva”.
Infatti oltre a “definire l'impulso e l'esercizio del linguaggio
verbale” R. in Boas apprezza l'esposizione di alcuni concetti, che
“smonta” dialetticamente, dell'etnologia, soprattutto “l'opinione
che l'arte detta decorativa cioè astratta abbia valore di simbolismo
per i primitivi”. Così anche “in tema d'arte decorativa il Boas
è più problematico degli analisti che ne hanno trattato”.
Eccetera.
Dalle
opere del Boas (1858-1942) C.L. Ragghianti investiga in questo
contesto soprattutto Primitive Art
(1927) nell'edizione Dover del 1955, di cui riproduciamo la notizia
della pubblicazione comparsa in “seleArte” (n. 26, sett.-ott.
1956, p. 39) e alcune tavole aggiuntive di illustrazioni dal volume
recensito.
Otto anni dopo, sempre su “seleArte” (n. 69,70,71, del 1964), C.L.R. - coadiuvato per le traduzioni e qualche
riassunto da Licia Collobi - pubblicò di Primitive Art una “riduzione assai larga” perché “il saggio è ancora una delle
analisi più penetranti e più ampie che siano state scritte sulla
forma dell'arte cosiddetta primitiva; riteniamo perciò utile farlo
conoscere, ora che quell'arte ha una così vasta risonanza, e non più
soltanto nell'ambito strettamente specialistico.
Anche
noi oggi riteniamo, giacché imperanti sono tuttora le
interpretazioni sociologiche dell'etnologia, che - per gli stessi
motivi allora enunciati da C.L.R. - sia culturalmente stimolante e
in-novativo dare ancora una volta visibilità e codificazione
dell'arte primitiva che culminerà ne L'uomo cosciente.
Arte e conoscenza nella paleostoria, a
tutt'oggi incompresa, quando non ignorata da larghe fascie degli
studiosi.
Colgo
l'occasione per annunciare che presto faremo una riproposta nel blog
di questo bel libro, allegando alla “ristampa” una documentazione
inerente, a cominciare dal notevole saggio La magnitudine
degli uomini primi (“Predella”,
n. 2, 2010, pp.369-390) di Annamaria Ducci, dal quale anticipiamo qui
le tavole documentarie (pp. X-XV).
F.R. (24 maggio 2019)
sabato 12 ottobre 2019
Emil Nolde, nazista.
Della infinita serie non si può – quasi – mai stare
tranquilli sugli uomini circa la loro integrità morale e circa gli
accadimenti conseguenti. I dati riguardanti un essere umano una volta
noti, studiati, analizzati determinano la storia quando essi hanno
una certa rilevanza, altrimenti incidono sulla cronaca, la quale col
passare del tempo può assurgere a storia, con la esse minuscola. Il
mutamento di dati, notizie, documenti a causa di nuove acquisizioni o
scoperte rende necessario il più delle volte riconsiderare ciò che
si considerava storicizzato. Comunque fa tanta tristezza – e rabbia
e amarezza – riscontrare scheletri nell'armadio di tante persone
insospettate, ritenute addirittura guide od esempi da seguire.
Adesso, dopo tanti casi, ma qui ha senso ricordare soltanto per la
Germania. Günter
Grass (1927-2015) e da noi la recente vicenda di Eu(parlo di tutto)
Scalfari, si apre il sipario sull'ultimo – a mia conoscenza –
cioè su Emil Hansen noto come Nolde (1867-1956).
Per quanto possa
essere triste e procurare disgusto, è necessario ricordare che
bisogna distinguere tra l'uomo artista e il medesimo individuo nelle
sue altre manifestazioni. Spesso questa ripartizione è incoerente.
Succede all'atto pratico, per fare un esempio illustre, che nell'uomo
Caravaggio (1571-1610) convivano un essere sciagurato e violento fino
all'omicidio e un artista così dotato ed originale da farlo
considerare – giustamente – uno dei più illustri di tutti i
tempi. Contemporaneamente egli va giudicato con riprovazione per la
vita scellerata con i suoi atti criminali indubbi. Il genio non ha
diritto ad assoluzioni morali né a “sconti” particolari: non
esiste – e là dove viene praticata è sopruso – la sacralità
dell'artista.
Questa ultima
pratica resiste, è diffusa ed è incoraggiata da regimi autoritari e
da situazioni sociopolitiche totalizzanti nelle quali i nostri sono
sempre buoni e gli altri sempre cattivi. Ricordo, in tempi a noi
recenti, come il P.C.I. “sacralizzasse” gli artisti iscritti e
fiancheggiatori, spesso al di là del ridicolo: Guttuso, per esempio,
non a caso veniva gerarchicamente comparato ad un cardinale, e come
tale trattato e imposto. Persino personaggi a noi cari come Tono
Zancanaro, si comportavano come unti del signore nell'ambito delle
organizzazioni collegate al partito e a coloro che ne traevano
vantaggi: offerte frequenti di esposizioni antologiche in centri
importanti, e una visibilità mediatica non tanto dovuta al merito in
sé ma all'appartenenza partitica, nuova forma di massoneria.
A proposito di
artisti moralmente spregevoli è recente la scoperta
dell'ignominia di Emil Nolde il quale era in realtà antisemita
e poi un nazista fanatico. Per sua sfortuna stava “antipatico” a
Hitler il quale non si degnò nemmeno di dare riscontro ad un
“piano”, concepito ed elaborato dal pittore per eliminare tutti
gli ebrei dall'Europa, proposto zelantemente e direttamente da Nolde.
Questi, comunque, fu attivo nella persecuzione delle persone, tanto
che non si peritò di denunciare come ebreo Max Pechstein, che non lo
era nonostante il suono del cognome. Anzi il Führer
– pittore mancato perché accademicamente respinto – che si
considerava un intenditore definì pubblicamente le tele e gli
acquarelli di Nolde “schizzi di un bambino demente”,
inserendolo tra gli artisti definiti dal regime “degenerati”.
Però, data la militanza, non subì fino al 1941 (quando gli si vietò
di esporre e vendere) nessuna angheria anche perché gli alti
gerarchi come Hermann Göring
compravano a caro prezzo le opere del pittore da loro molto
apprezzato.
Un caso di
degenerato “ad personam” dal dittatore. Questo fatto, con
complicità di una qualche “Odessa” analoga alla nostra P2,
consentì dopo la guerra a Nolde di accreditarsi come una vittima
del nazismo. Nel 1968, addirittura fu pubblicato il romanzo
Deutschstunde (tradotto
in italiano nel 1973 da Einaudi) scritto da Siegfried Lenz ispirato
alla figura di Nolde mitologizzato vittima del regime. In più il
“furbacchione” Nolde nella sua autobiografia “dimenticò” il
passato razzista e l'adesione al nazismo; mentre la Fondazione a lui
intitolata, e tuttora agente, ha occultato e “ripulito” circa
venticinquemila documenti compromettenti.
A
partire dal 2013 alcuni storici dell'arte hanno cominciato a rendere
noto il passato del pittore. Oggi, in Germania, si chiede di togliere
tutte le opere di Nolde dai Musei pubblici. Quest'ultimo fatto è un
errore di merito grossolano, ingiusto e sospetto – come tutte le
richieste smaccatamente demagogiche – di nascondere altri “altarini
e scheleri” compromettenti.
Non
è stato per indulgenza, lassismo o complicità che in Italia Sironi
e altri artisti (tra cui Rosai) compromessi col fascismo non sono
stati emarginati nella conoscenza dell'opera loro e nella visibilità
del loro lavoro. Le opere d'arte non sono state – e non meritavano
di esserlo – discriminate, proprio e semplicemente perché opere
d'arte.
Può
dispiacere doverlo ammettere ma la creazione originale di opere
d'arte – da chiunque ne sia l'artefice – se di fatto ottiene un
riconoscimento unanime, secondo validi canoni estetici, è arte
e come tale va distinta da altre manifestazioni umane e, inoltre, va
tutelata come bene comune.
Si
può odiare Wagner come persona, ad esempio, e ad ascoltarlo provare
anche un qualche disagio, ma è demenziale negare alla sua musica
una veridicità espressiva di portata universale e
perenne. (Comunque, io preferisco pensare e dire: “Viva Verdi!”).
Analogamente non si possono svilire la qualità e l'autenticità
espressiva di poeti e scrittori quali sono stati Ezra Pound
(1885-1972) e Louis Ferdinand Céline (1894-1961) giustamente puniti
ed emarginati socialmente per il loro collaborazionismo fascista e
filogermanico, né irridere un Robert Brassillac (1909-1945), però
giustamente fucilato per tradimento e collaborazionismo.
Una
dimostrazione di questa assertiva distinzione, effettuata a proposito
di ogni essere umano, diventa clamorosa se questi è un artista, un
creativo originale. Intendo quindi esemplificare il caso di Nolde con
la riproduzione di un breve testo (l'unico che mi risulta dedicato a
Nolde da Carlo L. Ragghianti) tratto da “seleArte” (n. 24,
mag.-giu. 1956, La
Biennale di Venezia,
p.30) e da due recensioni redazionali scritte da Licia Collobi con
probabile intervento di R. sempre su “seleArte” (n. 52, 1961, pp.
32,33; e n. 63, 1963, pp. 70,71) a cui si aggiungono alcune
illustrazioni a colori di opere del pittore tedesco di origine
danese. Quanto scritto in questi testi, infatti, si riferisce
esclusivamente alla qualità e alla originalità dei dipinti e degli
acquarelli senza farsi condizionare da elementi “sociologici”
estranei all'arte. Sono anche certo che queste osservazioni
sarebbero state sostanzialmente identiche se fossero stati già noti
ai Ragghianti i precedenti antisemiti e poi razzisti di Nolde.
Non mi sento, però, di garantire che gli autori, a conoscenza della
turpitudine morale dell'artista, avrebbero pubblicato proprio quelle
iniziative riguardanti le opere di Nolde e non, invece, altri
argomenti artisticamente equivalenti ma aulenti a disposizione della
redazione.
F.R.
(14 giugno 2019)
mercoledì 9 ottobre 2019
Ragghianti su Berenson.
Nel
post del 27 luglio 2019 abbiamo ricordato, nell'ambito degli Atti
(12) del “Convegno Internazionale per le Arti figurative” di
Firenze (24-30 giugno 1948), le “Onoranze” a Bernardo Berenson ed
anche che l'iniziativa fu suggerita al sindaco Mario Fabiani proprio
da Ragghianti (v. lettera di C.L.R. a B.B. del 9 aprile 1949). Adesso
mi accorgo che queste “Onoranze” oggi coincidono con il
sessantesimo anno dalla morte dell'illustre studioso ed esperto per
necessità (così ha affermato lo stesso Berenson) di sussistenza –
lauta peraltro – dato che egli non era professore universitario né
abbiente di famiglia.
Quindi
anche questo post viene a configurarsi come conseguenza
commemorativa, circostanza alla quale non diamo importanza, salvo
quella di creare un pretesto specifico per occuparsi di un
personaggio o di un avvenimento.
Questo
post sarà comunque un excursus
centrato sui giudizi critici e storici di Ragghianti, sui rapporti
tra i due illustri studiosi, inevitabilmente riduttivi nei confronti
del famoso “esteta” e connoisseur di
cultura essenzialmente germanica. Ciò non toglie che sul piano
umano, personale, R. non avesse rispetto e riconoscenza verso
l'anziano personaggio circondato in vita da grande considerazione. In
fin dei conti meritata perché basata su fatti e studi concreti, non
aleatori, superficiali e discutibili come quelli di chi ci ha e ci
sta affliggendo con agitata prepotenza e forsennata ricerca di
visibilità: personaggi convenzionali nonostante le peregrine
provocazioni.
Allora
riporteremo alcuni documenti prevalentemente epistolari, nei quali R.
riferisce su B.B. (come lo chiamava Nicky Mariano sua storica
segretaria) o considerazioni sulla sua opera. Dato che questa non è
né può e vuole essere la sede di speculazioni originali e
innovative, non si indaga puntualmente sull'arco degli scritti di
C.L.R. quanto riferito a B.B., se non altro per non sfornare una
sorta di corposo volume. Dai libri riporto soltanto i due punti in
cui R. si diffonde su Berenson nel Profilo della critica
d'arte (1942, pp. 55-58) e dai
Complementi della
seconda edizione (1974, pp. 195-197). Dagli altri libri, saggi e
corrispondenze confido che chi è o sarà interessato, anche tramite
gli indici e l'Archivio di Lucca potrà appurare e approfondire di
persona.
Questo
nostro intervento, tutto sommato, sarà un sommario, un indice
approssimativo per dare un punto di
partenza per una ricerca scientifica. Riproduciamo
due lettere del 1946, una a Gianfranco Contini (che allora e fino a
qualche tempo dopo fu interlocutore e sodale di R., dal quale si
allontanò anche per sollecitazioni “sociali”), l'altra allo
stesso Berenson. Del 1954 è la recensione su “seleArte” di
Vedere e sapere; si riportano poi gli “omaggi” dettati a “La
Nazione” da R., Longhi, Cecchi, Venturi, Middeldorf e
Salvemini in seguito alla morte di B.B. (1959). Dell'aprile 1961 è
la lettera inviata a Giuseppe Fiocco. Venti anni dopo, l'8 settembre
1981, Ragghianti pubblicò su “La Nazione” l'articolo
Berenson, un the e la guerra scaturito
dai ricordi suscitati dalla lettura di una biografia di B.B.
Dell'anno dopo, 1982, ho trovato due lettere in cui si fa riferimento
allo studioso lituano e un appunto manoscritto non concluso, che
riproduco accanto la trascrizione dattiloscritta. Negli anni
successivi C.L.R. scrisse Arte essere vivente
(1984) dove si tratta di B.B. a proposito di Profilo
(p.48), di Decorazione
(p.52, v. post 24 gennaio 2018), di estetismo errante
(p.71), di derivazioni da B.B. (p. 113), di scritto di K. Clark su
modello (p.144). In quegli anni R. lavorò alla Critica
della forma
(1986), libro importante nel quale sarà analizzato il pensiero di
Berenson ancora una volta nell'ambito di una analisi globale di
quella che R., nel sottotitolo del volume, ha definito “ragione e
storia di una scienza nuova”.
F.R.
(4 giugno 2019)
domenica 6 ottobre 2019
Arte Moderna in Italia 1915-1935 - Testi dei Critici, 4. Marcello Azzolini (Guerrini, Chiarini, Vespignani).

Post Precedenti:
1. RAFFAELE MONTI ( I ) - 16 giugno 2018
2. IDA CARDELLINI (LORENZO VIANI) - 28 settembre 2018
3. UMBRO APOLLONIO (NATHAN, BIROLLI) - 19 settembre 2019
Marcello Azzolini
In attesa di
un non so quanto probabile revival
di Marcello Azzolini, critico d'arte di Forlì, da Internet si ricava
ben poco (e da altre fonti accessibili ancor meno), nemmeno le date
attestanti la sua nascita e la morte. Storico locale sicuramente,
indicato come il critico d'arte “che in quegli anni guidava (sic!)
la situazione artistica forlivese”, Azzolini è stato autore di
numerose monografie in prevalenza di artisti emiliani e romagnoli
gravitanti sull'Accademia di BB.AA. di Bologna (ricordo soltanto
Guidi e Cesetti perché inerenti al periodo 1915-1935). Di lui
l'unica voce con indicazioni un po' diffuse sulla personalità e
l'attività risulta la recensione di Claudia Collina (Internet e
“Rivista IBC, XIII, 2005, 2) al volume Marcello Azzolini.
Pagine. Arte contemporanea 1951-1975. Antologia
a cura di Adriano Baccilieri, Editrice Compositori, Bologna 2004, p.
409. Il testo è piuttosto generico (nemmeno una data al di fuori di
quelle del titolo) e forse lacunoso perché noto: “oltre alla
statura storico critica di Longhi e Arcangeli, ha visto crescere e
operare a Bologna intellettuali come...”, seguono i soliti
noti locali, però con la vistosa assenza di Giuseppe
Raimondi e Cesare Gnudi. Guarda caso si tratta degli unici due
critici emiliani che hanno scritto su artisti emiliani presenti con
Scheda nella Mostra
“Arte Moderna in Italia 1915-1935”, e – oserei dire –
personalità indubbiamente almeno di livello nazionale quanto, se non
di più, di Anceschi, ecc.
Il
Baccilieri circa il metodo critico e lo stile di Marcello Azzolini
sottolinea le “intuizioni sottili e toccanti accenti lirici, che
si alternano a spunti polemici o alla puntuale ricostruzione
filologica del tema, integrandosi felicemente”. Il volume è poi
corredato da una esauriente biografia (che andrebbe messa in rete),
dal regesto degli scritti d'arte, da una bibliografia essenziale.
Manca l'Indice dei nomi,
trascuratezza colpevole da parte degli editori che molto spesso, così
facendo, inficiano anche gravemente la validità dell'utilizzo di
un'opera; gli Indici sono
indispensabili nei libri di “consultazione” e sempre
utilissimi.
F.R. (7 agosto 2019)
giovedì 3 ottobre 2019
Traversata di un trentennio, postilla.
Senza avere
certamente la pretesa di accostare a Niccolò Machiavelli il
cittadino e politologo Carlo L. Ragghianti, rilevo una analogia tra
ciò che Alberto Asor Rosa ebbe a dire sull'autore de Il Principe
e mio padre là dove ha scritto:
“...dunque
è un signore che sta profondamente confitto nella realtà del suo
tempo e ricerca anche le più elaborate teorizzazioni politiche da
un'esperienza profondamente vissuta...è uno sconfitto...Arriva ad
elaborare...sull'Italia, e poi sul governo, sulla politica, da una
esperienza di sconfitta...che poi diventa una disfatta e poi una
catastrofe” (da Machiavelli. La catastrofe italiana.
Forum de “L'Espresso “ n.
13, p. 54 del 24 marzo 2019).
Per
inciso, sono anche convinto che l'affermazione categorica di Geno
Pampaloni a proposito della Traversata (che
ricordo è ripubblicata
integralmente in questo blog a partire dal 13 novembre 2017), è un'opera profetica, derivasse da un ragionamento analogo a quello che svolge su Machiavelli Asor Rosa. Ho
ripescato questa postilla, stesa di getto dopo aver letto
l'intervento dell'ormai anziano storico e critico letterario, già
operaista, nel Forum de
“L'Espresso”, perché si collega alla nota redazionale anteposta
all' Intervista per la
“Voce repubblicana” del 28-29 aprile 1984 a Carlo L. Ragghianti
curata da Paolo Bonetti. In questo post del 3
agosto 2019, oltre
all'intervista sono pubblicati una lettera di Ragghianti su
Benedetto Croce e l'intervento Ragghianti e il tempo del
disinganno che il filosofo di
Fano tenne al Convegno su C.L.R. (Cassino, 21-22 ottobre 2001),
pubblicato poi negli Atti editi
nel 2004 da Franco Angeli col titolo Ragghianti critico e
politico.
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