Nel post del
15 ottobre 2017 su Giotto architetto la presentazione redazionale si
concludeva con la piccata recensione di Bruno Zevi all'importante e
innovativo libro di Decio Gioseffi sull'aspetto architettonico del
sommo artista vicchiese. Dato che non è registrata nella
Bibliografia degli scritti,
la lettera di Carlo L. Ragghianti (pubblicata ne “L'Espresso” del
26 gennaio 1964) indirizzata a Bruno Zevi contestandogli
l'interpretazione e la presa di posizione, ci era sfuggita di mente e
quindi il post, anziché con questa lettera, si era concluso con
alcune considerazioni critiche verso l'architetto e urbanista romano,
tutto sommato sostenibili.
Durante la
preparazione di un progettato addendum al post ho riscontrato
alcuni documenti epistolari con Eu(tuttaltroche) Scalfari, C.L.
Ragghianti e Bruno Zevi che mi convincono – stante anche che il
riferimento a Giotto è indiretto – a pubblicarle tutte insieme,
concluse da una desolata missiva di Decio Gioseffi a Ragghianti.
Questa
corrispondenza è importante per illuminare la questione da parte
degli studiosi implicati e del settimanale. In data 19 dicembre 1963
Eu(luicicrede) Scalfari scrive a Ragghianti una lettera nella quale
evidentemente risponde a rilievi mossi da Ragghianti circa la sezione
delle arti visive dell' “Espresso” con un tono che mi sembra tra
il sostenuto e il risentito. Replicando il 22 dicembre 1963, Carlo L.
Ragghianti puntualizza a Eu(lodicelui) Scalfari la qualità e la
portata della sua collaborazione al settimanale nato per volontà di
Adriano Olivetti, disinteressato sponsor di “SeleArte”. Ancor
oggi più che sospettarlo, sono convinto che gli argomenti del
giornale siano stati insufflati dagli amici dei soliti noti.
Quindi in
data 5 gennaio 1964 Ragghianti spedisce al settimanale la lettera,
che sarà pubblicata il 26 (18) gennaio '64, il cui titolo
redazionale recita “Troppo severo Zevi per Giotto architetto”. Di
questo testo esiste anche una prima versione, dattilografata
direttamente da C.L.R. (il quale raramente usava stendere minute
manoscritte) che pubblico come esempio di suo procedimento di lavoro.
Segue la
lettera di risposta di Zevi del 6 gennaio 1964 (le poste italiane
allora funzionavano bene e ancora! dal 1946 al '50 un espresso
spedito da Milano alle 13 era consegnato al piano di casa alle 17 o
poco dopo... e i lavoratori non erano sfruttati come quelli di
Amazon!). In questa pagina lo storico dell'architettura giustifica il
suo atteggiamento con la consueta baldanza.
Il
18 gennaio, poi, Ragghianti scrive a Eu(perifamiliari) Scalfari una
lettera di cui riportiamo soltanto la parte nella quale aggiunge
altri argomenti alle proprie perplessità circa la poca
considerazione con cui la testata romana affronta i veri
problemi inerenti la cultura, sempre con riferimento alla rubrica di
Zevi (che durerà decenni) e alla politica culturale.
Nella stessa
data C.L.R. scrive a Bruno Zevi, difendendo il lavoro di Decio
Gioseffi e richiamandolo ad una maggiore adesione alla metodologia
ragghiantiana, alla quale egli sostiene di attenersi.
Conclude
questa rassegna epistolare la lettera (trascritta perché l'originale
in fotocopia si legge a malapena) che da Trieste il 25 gennaio Decio
Gioseffi inviò a C.L.R. Si tratta di un documento abbastanza
esemplare della personalità dello studioso, persona dotta, curiosa,
dall'humor britannico, schiva ma pungente, non supponente però
conscia del proprio valore.
Il povero
Giotto in questa querelle c'entra di sbieco, mentre vi è possibile
notare come alcuni tratti caratteriali dei protagonisti studiosi
risultano aderenti al loro abituale comportamento (non o poco noto a
chi non li ha conosciuti di persona); anche il direttore del
settimanale risulta coerente con i propri esordi fascisti, cioè
ambiguo...Sta di fatto che la morale della vicenda è stata che C.L.
Ragghianti fu allontanato da “L'Espresso”, Pier Carlo Santini
invece pure, il settimanale s'è tenuto stretto l'antiquariato e il
tonitruante Zevi, vita sua natural durante.
F.R. (3
febbraio 2019).
Postilla e su "seleArte"
In effetti dopo la
polemica con Zevi circa il libro – davvero importante ed innovativo
– di Decio Gioseffi, la collaborazione di C.L. Ragghianti con
“L'Espresso” si trascinò fino alla fine del febbraio 1965.
Mio padre decise infatti
di non poter proseguire la collaborazione al settimanale in seguito
all'allontanamento del suo saltuario sostituto Pier Carlo Santini,
pretestuoso e lesivo per la persona. Perciò C.L.R. scrisse allo
Scalfari la lettera sottostante, riprodotta con il commento ai
lettori di “SeleArte” (n.73, gen.-mar. 1965).
Nel frattempo maturava
(concordata?) la situazione, sempre nell'ambito del lascito di
Adriano Olivetti (il quale era stato magna pars della
proprietà de “L'Espresso”), per cui i delicati famuli incapaci
chiedevano continui cambiamenti (formato, ad es., caratteri
tipografici, ecc.) con frequenti interferenze sulla redazione di
“SeleArte”. Si noti che Olivetti non fece nessuna richiesta dal
1952 alla morte nel 1960, il suo delegato Ignazio Weiss solo piccoli
rilievi migliorativi, mai immotivatamente, nei suoi contenuti. Quando
fu prospettata addirittura l'idea di incorporare la redazione (io
assistetti a Milano alla prima proposta verbale dell'omonimo del
notissimo psichiatra), i coniugi Ragghianti decisero di chiudere la
rivista col fascicolo 77/78 (gen.-giu. 1966) piuttosto che snaturarla
e banalizzarla.
Sia ben chiaro che Licia
e Carlo L. Ragghianti erano perfettamente consapevoli che almeno dal
1964 “SeleArte”, secondo i canoni editoriali emergenti, era
inadeguata a sostenere la concorrenza del mercato che offriva le
sgargianti, e per molti versi meritevoli, dispense totalmente a
colori dei fratelli Fabbri e di
altri editori. Quello che
ostava alla loro accettazione dei
“consigli” della nuova dirigenza Olivetti e delle controllate
Edizioni di Comunità non era pregiudiziale, era la conseguenza di
attente valutazioni. Erano, infatti, consapevoli i Ragghianti che una
radicale ristrutturazione in senso industriale della rivista e
soprattutto i cambiamenti sul piano editoriale e redazionale
comportavano problemi complessi di gestione di mezzi e di persone,
implicanti controlli, gerarchie, burocrazia ecc. Queste attività di
predisporre e gestire servizi editoriali e redazionali (con quali
persone capaci di sostenere l'equilibrio tra “divulgazione” e
rigore scientifico?) a livello di decenza scientifica comportavano un
enorme sforzo organizzativo ed economico che avrebbe assorbito tutte
le loro energie. Inoltre questa “macchina” di costi assai elevati
(solo il colore anziché il b/n costituiva una spesa proibitiva) non
avrebbe potuto garantire l'accesso all'acquisto di “SeleArte” di
tutti gli studenti e le persone colte, o che intendevano divenirlo,
che fino ad allora erano fedeli lettori. Così si sarebbe giunti a
tradire lo scopo iniziale ed identitario di “SeleArte”.
Dunque continuare
cambiando radicalmente era una soluzione inaccettabile per i due
coniugi studiosi, i quali non intendevano cambiare attività e
snaturare lo scopo della loro vita intellettuale. Quando a ciò si
aggiungono le citate pretese – sempre più pressanti e più
trasversali – di ingerenza e di effettivo controllo dei vari Soavi,
Musatti, Zorzi (tanto per citare soltanto i funzionari olivettiani),
non rimaneva altra soluzione dignitosa che quella di cessare la
pubblicazione di “SeleArte”.
F.R. (5 marzo 2019)
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