Carlo e Licia

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martedì 28 novembre 2017
domenica 26 novembre 2017
Giotto 2017,5. Carlo L. Ragghianti: "Percorso di Giotto".
Questo
studio sull'attività di Giotto dai primordi ad Assisi e all'anno
1300, demarcazione simbolica della sua prodigiosa attività, fu
scritto in prima stesura nel 1967 e in seguito pubblicato su “Critica
d'Arte” nel fascicolo monografico intitolato Percorso di Giotto
(n. 101-102, Marzo-Aprile 1969). Prosegue così la nostra
rievocazione dei ragguardevoli studi dei coniugi Ragghianti
sull'artista di Vespignano di Vicchio, collegati alle celebrazioni
del supposto settecentocinquantesimo dalla nascita. I precedenti
interventi sono stati postati il 26, il 27 luglio (monografie di
Licia Collobi), il 28 luglio e il 15 ottobre (Giotto Architetto) di
quest'anno. Quindi, come avverte l'autore a p.79, questa per certi
versi radicale sua ricostruzione fu pubblicata in Arte in Italia.
Dal secolo XII al secolo XIII (Casini editore, Roma 1969, coll.
978-1036).
Nella
lettera – riportata qui sopra – del 24 maggio 1969 a
Millard Meiss (1904-1975), considerevole studioso di Giotto e
dell'arte italiana dal XIV al XV secolo e professore nelle più
prestigiose università statunitensi (Columbia, Harward, Princeton),
Ragghianti – che lo conosceva abbastanza bene anche di persona –
annuncia le sue conclusioni sottolineando che il collega sarà
interessato “dalla mia ricostruzione e dall'indagine sui contenuti
dell'artista finora poco accertati”; accenna poi anche “alle
osservazioni analitiche, per altro inducibili”, cioè contrarie a
deducibili, quindi che dal particolare muovono al generale, dai
fatti ai principi. Mi permetto di sottolineare questo aspetto della ricerca di Carlo L. Ragghianti perché mi pare che essi non siano stati abbastanza considerati e sceverati dalla successiva e copiosa letteratura in materia. Anzi, per dirla fuori dai denti, le osservazioni “inducibili” sono state esplorate e assimilate più spesso di quel che non risulti dagli scritti; soltanto non sono state riconosciute pubblicamente al loro autore da parte di quegli addetti ai lavori perché presentate come proprie.
F.R.
venerdì 24 novembre 2017
{glossario} Urbanistica
"Non è facile, come si sa, compiere un'indagine urbanistica: essa è infatti in stretta correlazione con una notevole quantità di fattori che tutti sono implicati dallo sviluppo di una città o di un centro urbano od abitato considerato nella sua realtà edilizia; ed è inoltre necessario considerare tutta l'attività non solo costruttiva ed edilizia, ma anche di modificazione della natura e del paesaggio, svolta dall'uomo per rendere possibile la sua vita e migliorarla mediante la tecnica e il suo sviluppo, sia nell'insediamento umano che nella campagna. Un aspetto integrale dell'indagine urbanistica è l'analisi delle forme edilizie ed architettoniche, e quindi non solo degli edifici funzionali, ma dei monumenti, in quanto essi sono stati concepiti e sono sorti in relazione alle esigenze della civiltà storica. L'indagine propriamente urbanistica sarabbe assai più facilitata nella sua specialità, se esistessero studi, ricerche, risultati storiografici in altri settori della vita storica. Se non difettano le trattazioni di storia politica e diplomatica, assai meno sviluppate sono in genere le ricerche sulla vita religiosa e civile, e così sulla vita economica, specialemente dei secoli più lontani; mancano per esempio, quasi del tutto, le rilevazioni statistiche, sia economiche che demografiche, sicché lo studioso che affronta un problema di ricostruzione urbanistica di una città o di un centro abitato viene a trovarsi nella necessità di non limitare il suo lavoro all'analisi dei fatti edilizi ed architettonici e comunque a quelli caratteristici dell'insediamento umano, ma di venire in possesso di dati e documentazioni storiche di varia natura, per l'accertamento dei quali non si può fare a meno di ricorrere direttamente ad archivi, qualche volta poco esplorati e poco ordinati..." C.L.R.
Questo
intervento definitorio circa la peculiarità della disciplina
"Urbanistica" è tratto da una comunicazione pedagogica
dell'11 novembre 1958 inviata alla Signorina Di Gaddo (di cui non ci
risultano altre informazioni) da Carlo L. Ragghianti secondo il
proprio consueto metodo di insegnamento consistente nel seguire passo
passo lo svolgimento della tesi assegnata. Questa impostazione
dialettica e rigorosa escludeva tesi raffazzonate e funzionali alla
conclusione dell'iter scolastico del laureando e produceva
generalmente ottimi studi, quasi tutti successivamente pubblicati in
volume.Gli interventi più rilevanti di Ragghianti in questa materia (alcuni di rara reperibilità nelle
biblioteche, come quelli immediatamente successivi alla guerra) sono stati ristampati con pertinenti ed
esaurienti Note introduttive e Note al testo nella antologia Carlo
L. Ragghianti. Il valore del patrimonio culturale/Scritti dal 1935 al
1987, curata
esemplarmente da Monica Naldi e Emanuele Pellegrini (Felici Editore,
Pisa 2010). Pertanto in un Post di prossima pubblicazione
riprenderemo l'argomento "Urbanistica" riproponendo alcuni
testi di Ragghianti con una sua bibliografia su questa fondamentale
disciplina, che deve (se bene applicata) preservare e valorizzare il
nostro "meraviglioso" Paese, già – e da troppi decenni –
deturpato.
F.R.
martedì 21 novembre 2017
Licia Collobi e l'arredamento storico - La Casa Italiana nei Secoli 1
A post già
scannerizzato e impaginato negli altri testi e documenti, il fortuito
ritrovamento nel nostro caos archiviale dell'articolo che Licia
Collobi scrisse per la rivista “Firenze e il Mondo” ci induce
iniziare con la riproduzione di questa rarità da stanare altrimenti
in poche biblioteche. L'articolo – che segue immediatamente questo
testo fu pubblicato a mostra iniziata e prossima alla chiusura. Esso
si configura naturalmente come introduzione a questa documentazione
sulla Mostra La Casa italiana nei secoli (aperta da Aprile a
Novembre: otto mesi!) e al suo catalogo e, tra l'altro, in questo
scritto – sempre con la consapevolezza di una meritata riuscita –
si illustrano i criteri e si giustificano le carenze di un
“organismo” originale e complesso, quindi non ripetibile
facilmente né con adeguata rappresentatività.
Licia
Collobi Ragghianti cominciò ad interessarsi criticamente e fare
esperienza di arredamento e di mobilio storico soprattutto in
occasione del Catalogo delle opere d'arte pubbliche in
provincia di Piacenza (1938) quando dovette documentarsi per
affrontare la congerie prevalentemente ecclesiastica di materiali
altrimenti poco interessanti per chi non abbia una specifica
vocazione e curiosità nei loro confronti. Conoscendo la puntigliosa
caparbietà – gestita con tratto sereno e disteso – con cui
affrontava ogni “sfida” intellettuale e professionale e
coadiuvata da una straordinaria memoria (beata lei!) che gli
consentiva rapidità di introitare e rammentare i dati, ella fu in
grado di assorbirne una notevolissima quantità e di – e questo è
puro merito – analizzarli e relazionarli tra loro con acume e
pertinenza. Penso che anche gli studi per la preparazione della tesi
di laurea (1935, pubblicata 1937) su Carlo di Castellamonte, primo
ingegnere sabaudo, tramite le verifiche sul campo in ville e
castelli, generalmente arredati, abbiamo contributo alle basi di una
vera e propria specializzazione extra antiquaria. Nel 1936/7 fece
anche una ricerca e studio sul Palazzo Farnese di Caprarola. Oltre a
ciò la successiva reggenza (1942-43) della Pinacoteca Estense di
Modena e connessi contribuì ad allargare i suoi orizzonti nelle
materie collaterali alle canonihe pittura, scultura, architettura. Ho
vivo il ricordo del racconto delle vicissitudini per proteggere e poi
occultare – a causa del conflitto – anche la notevole collezione
numismatica, di cui studiò, naturalmente, le peculiarità. Altra
osservazione: tutti questi studi eterogenei costituirono certamente
una base solida per la sua latitudinaria competenza nella redazione
degli scritti di “SeleArte” (1953-66), poi rubrica di “Critica
d'Arte” fino al 1989.
Quanto
premesso spiega perché tra i vari e competenti funzionari della
Soprintendenza di Firenze, nel 1947 fosse scelta proprio lei, ff. di
direttore della Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pitti (moderna, si
fa per dire, giacché a tutt'oggi di tutte le opere eseguite dal 1900
ne sono esposte pochissime, e male). Certo un po', ma non troppo e
non scontato, pesò il fatto che fosse la moglie dell'ideatore e del
Presidente dello Studio Italiano di Storia dell'Arte e Commissario
per la liquidazione (poi non avvenuta) dell'Istituto di Studi sul
Rinascimento, organizzatore della Mostra. Ricordo quel periodo piuttosto bene nonostante avessi tra i sette e gli otto anni d'età. In parte perché praticamente per alcuni mesi i nostri genitori non furono mai in casa e sovente rientravano
dopo le 10 di sera, ragion per cui Rosetta (quattro-cinquenne) più che preoccupata
in vero era perplessa; ed io invece preoccupato e talora spaventato
perché spesso rimanevamo soli, col pupattolo di più o meno diciotto
mesi terzogenito, dalle sette del pomeriggio, quando un'anzianotta e
detestata Azelia da Lamporecchio (domestica di scarsa preparazione e
competenza e d'animo pravo, nonché un po' ladra) se ne andava a
raggiungere un becchino suo futuro consorte.
In parte i
ricordi sono più presenti perché da sempre ho cercato di capire
quel che e perché lo facevano gli adulti e di conseguenza li stavo
ad ascoltare (gli insegnanti mediocri – i più – però meno,
molto meno) con attenzione. Quindi sentivo la mamma relazionare il
babbo, perché anche se e quando tornavano assieme tardi, quasi
sempre il loro lavoro durante la giornata era differente e in lunghi
tra loro distanti. Quel che più mi colpì fu come Licia Collobi
riuscisse a coordinare e gestire in Palazzo Strozzi tutti, dal
Comitato tecnico, agli artigiani (tappezzieri, falegnami,
elettricisti ecc.) nonché il personale, compreso quello di
guardianìa. Questa capacità di coordinamento e di gestione è una
dimostrazione (aggiuntiva al valor militare quale partigiana
combattente) del fatto – assai inconsueto, ma meritato – che a
mia madre forse riconosciuto il grado di Maggiore dell'Esercito
Italiano.
Di questa
straordinaria mostra La Casa Italiana nei secoli, si è persa
la memoria e dimenticato la notevolissima quantità degli oggetti
esposti e la loro altrettanto notevole qualità, e poi anche la
consapevolezza del rigore scientifico, passato al vaglio di
competenti comitati regionali, che esplicitava l'importanza delle
“arti decorative” dal Trecento all'Ottocento. Ciò forse anche
per via della modestia della veste, ancor postbellica, del Catalogo
(esteriormente così dissimile dai “mattoni”, spesso
inconsistenti e fuorvianti, dell'oggi) ritengo culturalmente
significativo riproporre i testi dei Ragghianti, mentre le poche (19)
illustrazioni del Catalogo consentite dalle ristrettezze dell'epoca,
sono riprodotte nell'articolo di Licia Ragghianti. In proposito è
bene ricordare che fino al 1949 in Italia fu vigente il razionamento
di molti generi alimentari e non (es. carta) e che in Gran Bretagna,
vincitrice del conflitto mondiale, fu in vigore fino al 1954 un
razionamento molto rigoroso.
La curatela
di questo catalogo fu certamente il viatico per l'incarico a Licia
Collobi della Mostra e del Catalogo La sedia italiana nei secoli
(1951) per la allora ancora prestigiosa Triennale di Milano, che
oltretutto era uno dei pochi Enti con consistenti mezzi economici. Di
questo studio e altri scritti di Licia Collobi riguardanti mobilio e
arredamento pubblicheremo altri post su questo nostro blog.
Per inciso,
infine, non sembra incauto affermare che conseguenza abbastanza
diretta di questa mostra fu l'istituzione – proprio a Firenze e
proprio in Palazzo Strozzi – delle Biennali Internazionali di
Antiquariato per volontà di Luigi Bellini (che abbiamo ricordato nel
post Ponte a S. Trinita, 4 – Appendici, di prossima uscita e
che ricorderemo anche con uno scritto commemorativo su di lui di
C.L.Ragghianti, pubblicato sulla “Gazzetta Antiquaria, n. ¾,
lug.-sett. 1981) nel 1959, dopo un primo tentativo nel 1953 di sola
presenza antiquaria italiana.
sabato 18 novembre 2017
lunedì 13 novembre 2017
Traversata di un trentennio, 1
Quarant'anni
dopo: siamo sempre lì.
Perché
ristampare Traversata di un trentennio. Testimonianza di un
innocente? Rispondiamo con le parole (vedi “SeleArte”, IV
serie, n. 17, 1° maggio 1993, p. 3) scritte or sono quasi
venticinque anni, prima del nefasto Berlusconi, prima della
dissoluzione delle “ideologie” tradite sistematicamente
dai propri portabandiera, prima dell'attuale scampato pericolo liberticida di tradimento costituzionale e in vista delle elezioni politiche – previste per la primavera 2018 – il cui esito si profila irrimediabilmente catastrofico. Citando Benedetto Croce, heri dicebamus:
Pensiamo di
riproporre l'intero testo diviso in cinque mensilità, in modo che
per le cruciali e quasi sicuramente non risolutive elezioni del 2018
l'opera sia disponibile per una – di fatto assai contenuta –
consultazione e possibilità di riflessione.
Quindi qui
citiamo quanto d'altro in proposito del libro sia comparso in
“SeleArte”, IV serie, e poi leggibile in questo blog. Inoltre
contiamo di rendere pubblici i documenti e lettere di C.L.R.,
riguardanti il libro, postandoli come Appendici dopo il testo
originale. Così nel fascicolo 17 sopra citato, oltre all'Editoriale
(p.3) si leggono le recensioni di Raffaello Franchini, Traversata
(p.6); di Manlio di Lalla La rinascita italiana non è impossibile
(p.9); di Cosimo Ceccuti La Traversata ha vinto il Premio
Internazionale Nuova Antologia (p.10). Invece nel fascicolo n. 6
di “SeleArte” (qui postato il 30.12.2016) a p. 19 riportiamo
quanto C.L.R. scrisse in proposito a Pascale Budillon Puma: “Il mio
libro del 1977 Traversata...è il resoconto del fallimento non
tanto mio e della Resistenza, ma della democrazia organica nel nostro
Paese (io mi sono anche speso per la riforma dell'amministrazione del
Patrimonio artistico)...”. Nello stesso fascicolo n. 6 da p. 31 a
p. 48 abbiamo: “Sul volume Traversata
di un trentennio e sul 'compromesso' partitocratico.
Lettere e documenti/Il compromesso (12/12/1978), p. 32; a Sandro
Pertini
(20/11/1978), p. 33; a Sergio Fenoaltea (25/11/1978), p. 34; a Giuseppe Are (20/11/1978), p. 35; da Carlo Cassola (27/11/1978), p. 36; a Carlo Cassola (3/12/1978), p. 37; a Ugo La Malfa (25/11/1978), p. 38; a Domenico Settembrini (3 e 21/12/1978), pp. 39,40; a Enzo Bettiza (21/12/1978), p. 41; a Elena Croce (21/12/1978), p. 42; a un'Amica (1/1/1979), p. 43; Sulla fine della prima repubblica (9/4/1979), p. 45; Recensione di Riccardo Bauer (4/1979), p. 46; a Riccardo Bauer (8/5/1979), p. 48.
Sempre in “SeleArte”, poi, compaiono altre citazioni che saranno riscontrabili negli Indici di questa IV serie, al momento in avanzato stadio di preparazione. Contiamo, altresì, di completare entro breve tempo la postazione di tutti i fascicoli fino al n. 26 ed ultimo.
Sempre in “SeleArte”, poi, compaiono altre citazioni che saranno riscontrabili negli Indici di questa IV serie, al momento in avanzato stadio di preparazione. Contiamo, altresì, di completare entro breve tempo la postazione di tutti i fascicoli fino al n. 26 ed ultimo.
Vedendo il precedente riferimento a Sandro Pertini mi è d'obbligo, ancorché caro, ricordare ancora una volta la coerenza morale di Ragghianti, incurante di tatticismi e private convenienze, nonché il fatto notorio che la pubblicazione de la Traversata gli costò la nomina di senatore a vita, che il tronfio e “prudente” nonché sostanzialmente conformista Pertini gli aveva fatto intravedere.
A questo proposito è opportuno rendere nota la lettera indirizzata a Indro Montanelli, col quale Ragghianti dal 1974 aveva una libera e saltuaria collaborazione a “Il Giornale” e riconsiderati rapporti di stima personale.
giovedì 9 novembre 2017
lunedì 6 novembre 2017
Rolando Bellini su Guido Pinzani
Questo testo fa riferimento alle opere di Guido Pinzani che illustrarono il volume “La Torre pendente di Pisa” e quasi tutto il fascicolo n. 26 di “SeleArte”, IV serie, 1998 e doveva essere pubblicato nel n. 27 della rivista (parzialmente allestito) non stampato a causa della cessazione della Fanzine ragghiantiana dovuta essenzialmente a ristrettezze economiche.
Rolando Bellini, brillante, fido e devoto assistente di Carlo L. Ragghianti per diversi anni all'Università Internazionale dell'Arte di Firenze, nel 1998/99 già da qualche tempo risiedeva a Varese dopo il suo matrimonio e insegnava all'Accademia di Belle Arti, prima di Torino poi di Milano, a suo tempo non ebbe riscontro di questa sua “recensione”. Data la mia situazione di allora (disoccupato, incazzato, con la famiglia orfana dei miei genitori in disfacimento) non pensai certo a giustificare la mancata pubblicazione di questo contributo.
Spero soltanto che Rolando Bellini non se ne sia rammaricato più di tanto: certamente avrà pensato ad una ritorsione per la mancanza di solidarietà espressami al momento dell'astuto siluramento sul lavoro. Certo ce l'avevo con lui (e forse è plausibile che gli avessi spedito per recensione un esemplare del libro sulla Torre di Pisa privo dell'incisione originale) ma molto, molto meno che con certe e certi altri tipi che, con varie sfumature miserabili e non giustificabili, se n'erano a dir poco lavate le mani.
Includo alla fine del post la riproduzione di un disegno a china di Guido Pinzani, eseguito l'11 dicembre 1995 nella Biblioteca dell'Università dell'Arte durante uno dei consueti incontri che allora avevo con questo artista (sull'opera del quale mi riprometto di tornare) sottovalutato e sottostimato ingiustificatamente.
Francesco Ragghianti
giovedì 2 novembre 2017
Un libraccio su Arturo Checchi
Una doverosa
premessa: non ce l'ho con Arturo Checchi, che anzi stimo come
artista tant'è che intendo occuparmi della sua opera in un prossimo
futuro e farlo in termini positivi. Sono più che indignato e
reattivo (data la mia pregressa e principale attività lavorativa
quale redattore e realizzatore di libri e riviste) con chi
cinicamente ha danneggiato Checchi per fini speculativi, per di più
mentre l'artista già a fine vita era appena deceduto. Sono risentito
anche con Libro Co Italia che detiene e commercia la giacenza del
volume anziché passarlo al macero. Mi sono procurato questo libro
per poter verificare ed identificare con certezza titoli e date e
dati di acquaforti e litografie del pittore di Fucecchio, comprandolo
perché l'unico in commercio che vantava i requisiti che mi
interessavano, assenti in altre opere dignitose che avevo riscontrato
in precedenza. Per la precisione la vistosa monografia del 1962 che
gli dedica Mino Rosi, che conobbi quale amico di mio padre, edita in
un precoce offset da Amilcare Pizzi, e Arturo
Checchi. Le carte, le opere, la vita,
monografia di piccolo formato pubblicata nei "Quaderni della
Fondazione Montanelli-Bassi" da Bibliografia e Informazione,
2013.
Il
libro oggetto di questa stroncatura è Arturo
Checchi. Incisioni e litografie
e siccome l'ho acquistato pagandolo 64 euro (spese di spedizione
comprese, bontà loro) mi sento autorizzato ad infierire sulle pecche
riguardanti l'opera e il catalogo di un artista di per sè più che
dignitoso.
Cominciamo
dall'editore: Bruno Nardini, mugellano fiorentinizzato che ai suoi
tempi contava (quindi probabilmente massone o clericale o entrambi
con – perché no – qualche ammiccamento con i comunisti, cosa che
non guastava mai i galantuomini). Dopo lunga dirigenza nella
Mondadori di Verona, si fa editore in proprio: questo dovrebbe essere
uno dei primi, se non addirittura in primo titolo edito con il suo
marchio.
Il
volume è ingombrante (cm. 24X32), pesante e, come detto, totalmente
privo di apparati: manca l'Indice;
le illustrazioni hanno titolo ed anno (perché forniti evidentemente
da Checchi, che ho avuto modo di riscontrare era alquanto pignolo),
però sono prive delle misure (e non credo che siano tutte
riprodotte in scala 1:1; e, se così fosse, è necessario, nonché
utile, dirlo in qualche luogo dell'opera!); sono anche prive
dell'indicazione del colore, dell'inchiostro o degli inchiostri usati
nella stampa degli originali al torchio. Quindi cosa si può dire
ancora di non sgradevole quando una monografia e un catalogo non
riportano nessun dato, nessuno ripeto, che specifichi la singola
opera oltre – come sopra detto – al titolo e alla data? Tanto,
purtroppo: non si indica che tipo di lastra si è usato, né la carta
o le carte adoperate; tantomeno c'è l'indicazione della tiratura o
delle tirature dei vari "stati". Sono cose che hanno molta
importanza sul piano commerciale e che interessano ai collezionisti,
i quali comprano questo tipo di libri proprio per avere le notizie
qui mancanti. Infine le pagine non sono numerate, nemmeno quelle dei
testi critici!
Per
concludere questa parte, bisogna rilevare che manca una, sia pur
breve, presentazione; mancano, sia pur minime, biografia e
bibliografia dell'artista. E'assente persino (si tratta di un dato
obbligatorio per legge) il "finito di stampare" con data e
nome del tipografo! Roba da chiodi, mai vista. Se fosse un libro
fresco di stampa ci sono gli estremi per chiedere il rimborso o
chiederne il ritiro dal commercio.
Ben
sei sono gli autori coinvolti, con interventi non corposi e difficili
da trovare per l'assenza di indice e numero pagina; erano e sono
piuttosto noti almeno cinque di essi. Il sesto, Ottorino Guerrieri,
che mi giunge nuovo, è uno scrittore e critico locale. Naturalmente
di nessuno di costoro nel libro c'è il pur minimo cenno biografico o
almeno l'indicazione di a che titolo scrive in quella sede di Arturo
Checchi.
Per
una simile presa per i fondelli nei riguardi della decenza
tipografica non può valere come attenuante il fatto che la
monografia sia in realtà stata commissionata dall'Artista per
"propagandare" la propria attività. In questo caso, anzi,
direi che umanamente si configura una sorta di turlupinatura a danno
di persona inesperta e non reattiva per momentanea incapacità, dati
gli ottantasei anni e la valitudinarietà. Arturo Checchi, infatti,
morì nel 1971, quindi non fu in grado di controllare o di reagire
all'obbrobrio perpetrato a danno della sua immagine e della sua
vedova ed erede.
Nella
citata monografia del 2013 su Checchi questo pesante volumaccio
nardiniano è citato spesso come "s.i.p." (per chi non lo
sa vuol dire "senza indicazione pagina") e nella
Bibliografia colà presente a p. 122 vengono indicate due voci edite
da Nardini (1971,1972), però esse non hanno il titolo che compare in
questo libro che stiamo esaminando e che – per altro – i
rivenditori su Internet unanimemente datano 1971, edito quindi, come
già rilevato, con Checchi morente o appena defunto. Anche nel caso
del libro della Fondazione Montanelli-Bassi si è preferito da parte
dei curatori un comportamento molto ambiguo: citare i testi là dove
serviva, ignorare non solo le pecche ma l'esistenza "ufficiale"
dell'opera.
Questa
intemerata non è uno scatto umorale e quanto scritto su questo libro
è soltanto la reazione sdegnata di una persona offesa nella dignità
professionale. Per più di trent'anni, infatti mi sono occupato di
realizzare libri, importanti e cestinabili, utili e superflui, belli
e brutti, per altri editori ed in proprio, ma
tutti corretti ed
aderenti ai dettami della tipografia e dell'Editoria. Sono stati anni
di esperienze le più varie, con una partecipazione latitudinaria:
dalla correzione di bozze, all'impaginazione, dalla tecnologia alla
stesura dei testi promozionali e/o complementari all'edizione, dalla
dirigenza all'esercizio della proprietà editoriale.
Per
concludere il discorso su questa, diciamo "anomala"?,
monografia sulla grafica di Arturo Checci, spendiamo qualche parola
sui testi che sono sparsi nel volume. Si tratta di brevi saggi di
qualità ed impegno discontinui, che ci riserviamo di analizzare e
citare soltanto se significativi e complementari al Post su Checchi
che sto impostando. Il primo (Le
acqueforti) è di Mary
Pittaluga, amica di mia madre, insegnante e apprezzata studiosa di
grafica; il secondo è Umberto Baldini (su due acqueforti), laconico
come sempre; il terzo di Giuseppe Sprovieri (la xilografia); poi il
quarto di Indro Montanelli col suo "pensiero" su Checchi,
curiosamente inserito nella sezione litografie, è probabile
riproposta di testo già edito; quindi è Enrico Sacchetti, penso in
citazione stanti le diciassette righe su C. disegnatore; sesto ed
ultimo Ottorino Guerrieri (Giardini di Perugia),
città dove visse negli ultimi anni l'artista.
Concludono
la parte scritta del libro tre pagine della vedova, Zena Fettucciari,
in memoria del marito.
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